mercoledì 12 dicembre 2012

Clear blue skyes and baby eyes...

Era estate. Dalla finestra di camera sua, al primo piano della casa del nonno, si vedeva il placido ondeggiare dei campi coltivati, si sentiva il frinire delle cicale. Le tende bianche si spostavano appena; non c'era molto vento, ma abbastanza per mitigare l'arsura. Aveva passato tutto il giorno a fissare fuori della finestra. Le mappe stellari, le rotte tra i sistemi erano sparpagliate sul suo letto. Erano quattro settimane che Molly era bloccata in quella stanza, quattro settimane d'inferno. Era talmente esasperata che il padre aveva preso, la sera, a raccoglierla tra le braccia e portarla al piano di sotto, in veranda, così da poter prendere un minimo d'aria, ma di giorno, non se ne parlava. Qualcuno doveva stare sempre con lei. A causa di quella frattura multipla, esposta, tra l'altro, il medico le aveva categoricamente proibito di alzarsi. Questo rallentava il lavoro. Jacob aveva deciso di stare a casa, ma lei non ne aveva voluto sentir parlare. Aveva otto anni.

- Non puoi mandare zio nello spazio da solo, Pà!
- Winger, c'è Trig con lui, e comunque non posso nemmeno lasciare te, ti pare?
- Ma posso stare con Mary Anne.
- Lei è incinta, ha tre figli, non ha tempo di badare anche a te.
- Ma io non ho bisogno che mi si badi, se quella palla di dottore non mi...
- Winger! Non si parla così di Lee, lo fa per il tuo bene!
- Ho capito, ma... insomma, non posso fare guai. Tu vai, al massimo mi aiuta Berta!
- Ma Winger...
- Papà, vai! Sto bene.

Non c'era verso. Aveva deciso che il padre sarebbe dovuto tornare a lavoro, nonostante lei fosse praticamente bloccata a letto. Si fece lasciare le carte, tutto quello che poteva intrattenerla e si chiuse in camera. Berta passava regolarmente a darle i pasti, a cambiarle il letto e aiutarla ad andare in bagno, quando era necessario. Aveva una strana gabbia di alluminio attorno alla gamba, spezzata in tre punti dal femore alla tibia. La caduta da cavallo era stata tremenda, ma non era quello che la mandava in bestia: non il dolore, non la colpa - che chiaramente era di Cole Jackson - ma il dover stare reclusa quando le giornate erano infinite e avrebbe potuto fare di tutto. Non aveva mai visto un'estate così tranquilla, il tempo così favolrevole, e mai ne avrebbe viste altre in tutta la sua miserabile esistenza. 
Il cielo era terso, di un incredibile azzurro. Era splendente, vivo e attraente. Bussarono alla porta. Voltò il viso e fece capolino un ciuffo biondo. Storse le labbra.

- Ciao.
- Cosa vuoi?
- Winger io, volevo solo chiederti...
- Va via.
- Ma Winger...
- Non voglio vederti, Jackson. Ti odio. Vattene.

Ci rimase davvero male, Cole. Cercò di insistere ma lei prese a strepitare e raccolse la ciotola con il pane ammorbidito nel latte freddo e gliela tirò contro, impattando sulla porta e spargendo resti del suo spuntino dolce un po' ovunque, assieme ai frammenti di coccio del contenitore. Non era il primo che rompeva, tirandogli appresso, ma sarebbe stato l'ultimo. Aveva deciso che non lo avrebbe mai perdonato per quello che era successo. L'idea era stata sua, lui era certo che non ci sarebbero state ripercussioni e invece, eccola lì, con quattro settimane di fermo e altre due che l'aspettavano al varco. L'unica consolazione che ebbe era di sentirlo urlare di dolore mentre il dottor Wong gli rimetteva apposto la spalla slogata. Fu meglio di qualsiasi altro antidolorifico e non si sentì nemmeno una brutta persona, a godere della sofferenza di Cole che in qualche modo la portava a distrarsi dalla propria. Adesso non c'era più il dolore, solo l'ombra minacciosa di rimanere zoppa a vita.
Il cielo era blu, intenso, vivo. Aveva una voglia folle di uscire ma non poteva muoversi, non glielo avrebbero permesso. Fissava il cielo fuori dalla finestra, cercando di intuire le forme di nuvole che non c'erano, o che si affacciavano solo di sfuggita, correndo via veloci. Era una giornata favolosa, poteva anche sentire le risate che correvano sulle ali del vento, dal fiume. Tutti erano al fiume, a fare il bagno, per mitigare il caldo. 

- Winger...
- Papà, quando siete tornati?
- Ieri.
- ...

Era perplessa. Non aveva sentito la nave atterrare. Non erano venuti a salutarla, come facevano sempre quando rientravano da un trasporto. Increspò la fronte, aveva i capelli sciolti sulle spalle, il viso imbronciato e un pochino pallido, provato dalla mancanza di libertà, di aria fresca, di sole e spensieratezza.

- E' successo qualcosa?
- Si tratta di Mary Ann.
- Ah?

Balzò sul letto, preoccupata. Mary Ann era una brava donna, buona, paziente, anche se un pochino rigida. Aveva un sorriso dolce, materno, ed un po' aveva anche provato a farle da madre, nonostante lei rifiutasse categoricamente qualsiasi surrogato femminile al proprio fianco.

- Stai tranquilla, non è nulla di grave. Ha partorito.
- Ieri? 
- No. Settimana scorsa, ma non stava molto bene.
- E adesso? E il bambino?
- Sta bene. Anche la bambina.
- Bambina?
- E' una femmina: Demi.
- Demi...
- Vuoi vederla?

Sgranò gli occhi. Ronda era nata che lei aveva cinque anni. Non ricordava molto, solo che era piccola e strillava un sacco ed era tutta rossa in faccia, chiazzata come se fosse malata. Non l'era piaciuto. Però, sapere che era nata quella bambina che scalciava come una disperata nel pancione di sua madre, mentre la donna cercava di aiutarla a lavarsi, spugnandola con delicatezza dove aveva le ferite, le dava uno strano senso di calore. Abbassò gli occhi sulla gamba. La gabbia metallica tirava sulla pelle, perni infilati nell'osso, i punti e una cicatrice appena visibile. Lee era bravo con l'ago, sapeva suturare in maniera talmente sottile da non lasciare segni. Vedere la pelle rimarginata lì dove invece era slabbrata e la scheggia d'osso rosa - tra il bianco e il sangue - sporgeva le diede un brivido. Annuì, senza esserne convinta e sollevò gli occhi chiari. Alle spalle di suo padre entrò il vecchio Trigger, ben più giovane e disteso di quanto non le fosse mai sembrato. Teneva un frugoletto verseggiante tra le braccia, avvolto da una copertina di cotone fresco. Sorrideva, Cooter Jackson. Sorrideva come solo un uomo fiero di sè stesso potrebbe fare. Si sedette sul letto e le porse la bambina. Demi. Le furono date indicazioni su come tenerla, sorreggendole la testolina, tenendola leggermente inclinata. Era pesante, per lei, ma se l'appoggiò addosso così che non potesse scivolare. Piccola. (Minuscola!) Non era rossa come Ronda, aveva un bel colorito chiaro, capelli sottili sottili sottili, biondicci quasi bianchi, un naso a bottoncino, le labbra leggermente crucciate, schiuse a respirare. Mani piccole, piccolissime, raggrinzite e serrate contro il bordo del lenzuolino. Dormiva. Molly non parlò, si limitò a fissarla intensamente, studiandone i tratti, il respiro calmo. Poi, di punto in bianco, spalancò lo sguardo e lei rimase di sasso. 

Cecilia. Molly spalancò gli occhi. La sua cabina era illuminata dalla luce del c-pad. Cecilia l'aveva guardata come l'aveva guardata Demi. Occhioni grandi, innocenti, pieni di una consapevolezza talmente acerba, così puliti ad affacciarsi al mondo che ti fanno sentire disgustosa, inadeguata, sbagliata. Eir gliel'aveva lasciata, da tenere come qualcosa di assolutamente fragile. Se le fosse caduta, se le avesse fatto male... non se lo sarebbe mai perdonato. Deglutì. La preoccupazione lavata via con il rilascio del dottore. La certezza, radicata, che con Cecilia non avrebbe fatto lo stesso errore commesso con Demi. Aveva dieci anni, tante speranze, tanta vitalità. Aveva dieci anni, voleva un cavallo per il suo compleanno. Avrà dieci anni in eterno, la piccola Demi Jackson

Cecilia vorrà un cavallo. Cecilia vivrà la guerriglia. Cecilia dovrà avere un padre. E una madre. Cecilia vivrà i giorni, con un bel cielo blu, ad inseguire nuvole e sogni.