Seduta in plancia osservava fuori dal vetro spesso della Monkey. La tazza di caffè fumante accanto, il posacenere pieno di mozziconi di sigarette e il bocchettone dell'aria che aspirava via il fumo per filtrarlo e ricacciare aria pulita nella nave. Per tre volte di fila si era spostata, controllando dalla passerella sospesa che non vi fosse nessuno, che la stiva fosse chiusa, così come un controllo agli airlock superiori. Il c-pad al polso, l'auricolare nell'orecchio le trasmette registrazioni, scaricate tramite il computer. Le mappe stellari spiegate davanti a lei, il riflesso di miliardi di stelle a tenerla sveglia la notte, a guardia, pronta a svegliare il fratello. Joe Black era finalmente uscito dal pit, potendo prendere aria, lavarsi, cambiarsi e vivere da essere umano almeno una nottata, dopo una sana cena, in attesa che la situazione si sbloccasse. Erano passati non si ricordava nemmeno quanti giorni da che la Monkey era stata messa sotto sequestro. Red era in ospedale, piantonato, con due proiettili in corpo. Quel pensiero continuava a bussarle alla mente. Strinse la presa sulle piastrine sotto la maglietta, le sfilò, lasciandole penzolare davanti gli occhi chiari, le palpebre appesantite.
- Che gran casino. E' davvero un gran casino.
La voce rimbombava tra le paratie. Si alzò di nuovo, finendo per appoggiarsi contro il portello che dava alla cabina di Dragan. Nel silenzio cercava di percepire il respiro del fratello, improbabile, visto le porte stagne. Sospirò. Non riusciva a chiudere occhio nè poteva permetterselo. Tornò indietro, riguadagnando la comoda poltroncina, ruotò su sè stessa, fissandosi attorno. Pensava, troppo. Lo aveva detto con Geidì nel Sanderson Pit: pensare troppo fa male, ma non poteva farne a meno.
Anya non c'era, Ritter, Sterling, Muto nel buco assieme alla bambina da troppo tempo, Cecilia non poteva resistere oltre e non riusciva davvero a trovare una dannata soluzione. Agoniava e in parte tremava all'idea che Vergil ormai fosse di ritorno. Così come Anya - anche se per scena - come Geibì, sapeva in cuor suo che il Capitano l'avrebbe strigliata per bene. Non era stata una grande idea, ma al momento sembrava ancora l'unica. Si sfiorò la guancia, allungandosi a guardare il riflesso in uno schermo spento notò ancora l'alone del livido. Anche le braccia portavano addosso i segni, erano utili indubbiamente a suffragare la teoria della minaccia, del tentato sequestro.
Non poteva fare a meno di pensarci. La scena ce l'aveva stampata in testa. La granata al fumo, la nausea, le lacrime, la voglia di sparire mischiata all'acido dello stomaco che saliva e la paura, tremenda, che gli succedesse qualcosa. Sapere di non poter intervenire eppure avere voglia di farlo, specie quando Chaplim neutralizzò il pilota con un calcio contro la tempia. Uscire da quel guaio senza conseguenze per la Monkey, per Anya stessa, non era così semplice come credeva. Ci sarebbero state ripercussioni. L'idea di quello che le disse il Tenente durante l'interrogatorio o deposizione che fosse, le rimbalzava ancora in testa:
"Protezione testimoni" sarebbe stata la fine.
- Non posso permettermelo. Se succedesse dovrei lasciarti, sai?
Parlava alla nave. Era l'unica con cui poteva parlare. Anya su Horyzon, Vergil lontano, il fratello a dormire sogni quieti e rinvigorenti nella sua stanza. Trigger... il pensiero scivolò di nuovo al co-pilota ed inevitabilmente sprofondò nei ricordi. Stringersi al pistolero nel Sanderson Pit le aveva ridato un minimo di sicurezza. Lo scontro con Anya aveva toccato nervi scoperti, messo la sua sopportazione a dura prova e riversato il suo caratteraccio all'esterno, diventando sgradevole anche quando non avrebbe voluto far altro che abbracciarla e rassicurarla che sarebbero uscite dai guai.
Il messaggio la mattina da parte della sorella le aveva alleviato in parte il senso di colpa, ma non del tutto. Ad essere onesti con sè stessi, nemmeno il passare la giornata con J.B. aveva risolto i suoi dubbi più grandi.
Chiuse gli occhi. Un grande respiro e un sorso di caffè, prima che, nel c-pad, risuonasse un messaggio vocale lasciato da Swift.
"Domani parto per Hera, io e Dale saremo al fronte. Pà e Dusty si sono piazzati su di un Brigade fighissimo e tu ti divertiresti un sacco a pilotarlo sai? Scivola che è una meraviglia, davvero. Una bambola. Certo, non quanto te. Io, Winger... mi manchi, tanto. Mi mancano le nostre corse, il fastidio di averti sempre tra i coglioni. Sai, ho visto un sacco di ragazzi come noi, nelle stesse situazioni. A volte vorrei correre a casa da te, ma poi mi ricordo che non abbiamo più una casa. E' stato un duro colpo per D. e papà, lui... però non è colpa vostra, Winger. Cerca di ricordarlo sempre. Non è stata colpa vostra. Nè tua, nè di tuo padre ma di questi fottuti unionisti. Vendicherò la mia famiglia, Winger, e poi tornerò a prenderti."
Non era colpa sua. Allora, nè ora. Erano le stesse parole che le aveva detto il fratello nel Pit. Non doveva sentirsi in colpa, ma non poteva fare a meno di pensarci. Chiuse gli occhi, passando le dita sulle palpebre arrossate, bruciavano. Un lungo respiro, uno sguardo stranito alle mappe che spense, facendo svanire in un puntino verde l'immagine mostrata sul monitor di bordo. Il pensiero scivolò rapido verso il padre, il senso di colpa che lo aveva inchiodato a terra, su Richleaf, a farsi consumare dal tempo e dal whiskey sintetico di bassa lega.
- Che dici, bimba? Farò la stessa fine? Spero ardentemente di no. In fondo, lo dice anche il brò, non è stata colpa mia.
Sorrideva, ma non c'era luce. Il pomeriggio passato aggrappata a J.B. le aveva ridato un minimo di fiducia, dopo essersi sentita la causa di tutti i guai. Un rumore la fece voltare. Controllò gli ASU, tenuti accesi per accertarsi che nessuno si avvicinasse a loro non visto. Era tutto in ordine attorno, il Pit non si distingueva. Però non era tranquilla, afferrò la tazza e tornò a guardare verso il corridoio. Si spostò, così da raggiungerlo e provare ad accedere alla cabina del fratello. Lui dormiva tranquillo. Fece un lungo respiro, rincuorata. Si era sbarbato, pulito e dormiva come un angioletto. Approfittò di quei momenti di silenzio per avvicinarsi a lui e sedere accanto. Allungò la mano. Nonostante tutti quei muscoli pompati, manipolati dalla scienza genetica della Blue Sun, sapeva che in lui poteva confidare, sempre. Era da tanto che non si fidava così di qualcuno in maniera così diretta. Gli carezzò la guancia mentre dormiva, provando ad essere il più delicata possibile, per timore che potesse svegliarsi di soprassalto. Il ricordo dei suoi occhi spiritati e turbati nel Pit le diede una scarica di dolore, diritta al petto. Si morse il labbro inferiore, il taglietto tornò ad aprirsi, il tessuto molle faticava a rimarginarsi. Un lungo sospiro e sentì la voglia di accoccolarsi al fratello. Non poteva, però, perché nessuno avrebbe vegliato su di loro. Aveva promesso alla sorella che si sarebbe presa cura lei, di lui, finché era lontana, non poteva cedere all'istinto di volersi nascondere, sprofondare dove sapeva di essere protetta. Doveva assicurarsi che passasse la notte indisturbato. Si sporse, per baciargli la tempia, gli rimise apposto le coperte e poi risalì le scalette, chiudendo la cabina alle proprie spalle. Doveva stare di guardia. Mise a fare altro caffè, forte, nero, cercando di sbrogliare la matassa che a propria volta aveva contribuito ad annodare. Tornò in plancia. Voleva andare nello spazio, voleva sentire la musica delle stelle, come le aveva insegnato la sorella a fare. Il mal di terra le aveva preso lo stomaco. Gorgogliava, si contorceva, ma doveva tenere duro. Mise della musica, per riempire l'ambiente, bassa abbastanza da non confonderla, ma presente abbastanza da scacciare i pensieri che tornavano ad affacciarsi.
Come rain or come shine, I will never leave you. Never ever.