domenica 30 dicembre 2012

The ones you love...

Anastasiya Irina Diodora Krushenko

Era una delle donne più belle su cui avesse mai posato lo sguardo, e allo stesso tempo, uno dei migliori piloti femmina che avesse conosciuto. Si trovarono subito. Bastò uno sguardo, uno solo. Lei era affabile, Molly un vero martello pneumatico. Quel drago sul viso la rendeva ancora più sensuale, quella tuta la fasciava come un guanto ma, a parte l'aspetto, era una dannata folle. Odorava di sfida. Amava le sfide. L'adrenalina, il rischio, diversamente da Cox, più conservatrice, meno imprudente anche se decisamente più incazzosa. Eppure, erano molto più simili come pilote di quanto potessero entrambe accettare. Non ci fu mai ostilità, non come con altri, ma affiatamento, dal primissimo minuto. Ben presto Anya divenne una parte integrante della sua vita. Di lei si fidava. Era una sensazione di pelle, qualcosa di istintivo. Le poteva cedere tranquillamente il timone. La prima persona oltre ai propri cari e congiunti a cui potesse affidare la guida senza sentire il prurito, il fastidio. Se la cavava, bene, ottimamente. Non aveva mai avuto figure femminili con cui condividere qualcosa, la passione per lo spazio, per il volo, le spinse vicine, fino al punto da saldare un anello, ad una catena ancora più lunga. Si rese conto di quello che provava per lei quando la chiamò e lei corse, per ubriacarsi sullo Skyplex di Hall Point di vodka korolevita fino a star male e non volerne più sapere di quell'alcolico. Se ne rese conto quando lo sportello della Monkey si chiuse, lasciandola a terra con Chaplim. Soffrì immensamente il lungo periodo di separazione, tentata, ogni notte, di chiamarla, ma spaventata che anche solo un contatto potesse in qualche modo metterla in pericolo. Correre da lei quando le arrivarono le coordinate, raggiungerla senza nemmeno avvisare il capitano, fiondarlesi addosso, abbracciarla e parlare, a lungo, bevendo, fino a che il sonno non le avesse rapite, abbracciate, unite fino alla fine. Si ritrovò a pensare che, se nel mondo esistessero persone con il suo stesso sangue, figli di quella stessa donna morta per partorirla, avrebbe voluto di certo una sorella come Anya. Perchè la korolevita era sua sorella, un legame più forte dello stesso sangue, come le aveva insegnato a provare la sua famiglia, che di sangue non condividevano nemmeno una goccia. Ora, dopo tutto quello che hanno passato, non saprebbe immaginare la propria vita senza di lei. Del suo pilota.

Joe Black

La sua idiozia non aveva limiti. Ti stordiva a parole, ruffiano, un'incallita testa di cazzo, eppure, tra una cosa e l'altra, tra il disastro del treno e la sua relazione con la sorella, è finita inevitabilmente per invischiarsi nel suo fascino. Non nel senso più stretto del termine, quanto più nel guadagnare via via la certezza che in fondo, il mercenario spietato, aveva un cuore. Un cuore idiota, ma pur sempre vivo di emozioni fin troppo feroci. Vissuto al limite del baratro, tradito, aveva riguadagnato ogni cosa, persa, e di nuovo guadagnata. Quando fu allontanato da Neville, fu lei ad andarlo a riprendere. Lui era lì e lei non riusciva a non pensare a quanto le sarebbe dispiaciuto perderlo. In fondo, era un tipo simpatico. Quello che si preoccupava quando non tornava a galla, quello che aveva paura dell'acqua, ma che non aveva esitato a buttarsi per salvarla, anche se era stato uno scherzo. Quello con cui scazzottava, litigava, ma dietro cui si sarebbe sentita sempre protetta. La sua pistola era fumante, il suo sorriso feroce, scavato dai dubbi, dai tradimenti, eppure quel legame con loro era qualcosa di balsamico. Sapeva che il suo nome non era Joe, ma qualsiasi fosse quello vero, non sarebbe cambiato mai nulla. Seppe di aver trovato l'ultimo frammento del proprio cuore quando si specchiò nei suoi occhi spiritati. Lo avevano rinchiuso, la mancanza di un'identità certificata era un grosso problema. Chiuso, con la bambina, il dottore e la terrorista. Seppe che a lui avrebbe sempre potuto affidare la propria vita nel momento in cui l'appese di forza contro la parete e se l'abbracciò. Lei lo avrebbe protetto e lui avrebbe sempre fatto lo stesso. Lui sapeva cosa significava avere una sorella, una famiglia, sparpagliata, spezzata. Eppure in lui c'era posto per la fiducia, per l'amore, come quello che lo legava ad Anya, come quello che lo teneva su quella nave. Era un fottuto pirata, un mercenario che avrebbe potuto fare qualunque cosa, ma rimaneva su quella nave, dove nessuno lo avrebbe tradito ancora, dove chiunque avrebbe dato ogni cosa pur di proteggere l'equipaggio, e anche lui. Nonostante tutto, tutti gli errori, il caratteraccio, le liti, rimaneva sempre il suo eroe. Quella persona speciale a cui guardare. Era un eroe cattivo, un eroe sbagliato, imperfetto, ma era il suo, e suo soltanto. Glielo promise, solennemente, che mai in vita sua gli avrebbe mentito. Una promessa che era disposta a mantenere, a costo di qualsiasi altra cosa, perchè quando incontri finalmente persone come Joe Black, sai che non puoi lasciarle andare.

Vergil Neville

Istinto. Così giustificò il suo accettarla a bordo. Vergil era il capitano di quella bella nave. Aveva un vizio assurdo per i sigari, sembrava davvero una di quelle persone tutte d'un pezzo, e diceva di avere un sesto senso. Le ispirava fiducia. Era un uomo rigido, si aspettava molto ma almeno pagava il giusto. La vita su di una nave, la possibilità di viaggiare per tutto il 'Verse. Erano le sue uniche aspettative e non le importava nulla di cosa trasportasse o della morale delle cose. Lui le aveva aperto un nuovo mondo, e si ritrovò rapidamente ad essere circondata da una nuova famiglia. Tutto d'un pezzo, eppure estremamente vulnerabile. Pieno, zeppo di fantasmi, lui era spesso qualcosa di insondabile, ma allo stesso tempo apprezzabile. Avrebbe dato tutto pur di proteggere il suo equipaggio. Un vero Capitano, a cui non poteva mai rinfacciare nulla, non lo avrebbe mai potuto fare. Tutti sbagliano, è la natura degli uomini, lui non poteva esserne esente. Il bere troppo, il dormire poco, l'oberarsi di troppe colpe che nemmeno gli appartenevano. Crescendo - perchè sì, a bordo della Monkey Molly Cox era cresciuta - imparò ad apprezzare di lui ogni piccola cosa, anche i rimproveri. Si ritrovò ad aberrare la possibilità di deluderlo, temere ardentemente di sbagliare grosso e perdere quell'unica famiglia che aveva riconquistato, un pezzettino alla volta. C'erano volte in cui lui riusciva a farla imbarazzare senza nemmeno parlare. Gli bastava uno sguardo, che si infiammava, un commento lieve, che tornava a bruciare come una ragazzina, vergognosa, inquieta. Lui si divertiva un sacco a farlo, metterla a disagio, smantellare quell'aspetto burbero, quei modi grevi, il carapace per mostrare il tenero di lei. A volte nei suoi occhi c'era qualcosa che non riusciva a comprendere, a volte, sentiva una pulsione a cercare tra le sue braccia il riparo, la quiete, il silenzio. Lui l'aveva trascinata all'inferno in un paio di occasioni, ma era stato così abile da tirarla fuori senza nemmeno un graffio, preoccupandosi, incazzandosi con lei. Le sue labbra avevano il sapore della libertà, qualcosa che non riusciva a capire, ma su cui finì per intestardirsi. Lo sgridava, perchè se lo meritava, ce l'aveva con lui, perchè aveva in parte paura di quello che sarebbe potuto accadere, il terrore di mandare tutto a puttane al primo passo falso. Lui, il suo Capitano, lei, la sua pilota.

Eleazar Ritter

Aveva qualcosa di strano. Lui, un Corer completamente fuori di testa, un vero folle, un drogato senza scampo. Tutto quello che odiava condensato in un'unica testa, un genio fuori dal comune. Affascinante, con una parlantina sciolta e un grado di educazione che la sotterrava, era anche l'unico medico a cui riuscisse ad avvicinarsi senza temere che potesse pugnalarla con un bisturi. Assurdamente folle, sconsiderato, riusciva comunque a tenerle testa. Lui e le sue scommesse, il brivido, la sfida, eppure, stranamente, sentiva che se avesse mai avuto bisogno di un dottore, l'unico a cui avrebbe concesso di toccarla era lui: Eleazar Ritter, il drogato di Corona. Quando se ne andò, dopo il treno, l'infermeria sembrava vuota e priva di senso. Lui era l'unico che poteva tirare fuori Vergil dal suo buco nero, eppure era troppo lontano. Avrebbe dovuto rimanere, nessuno voleva che se ne andasse. Lei soprattutto, se ne fotteva altamente dell'Hyperyon, avrebbe dato tutti gli Avanger del maledetto 'Verse pur di avere ancora quel coglione di dottore con loro. L'equipaggio era incompleto, sparpagliato, come semi al vento. E dove il seme tocca terra, germoglia. Il suo ritorno le aveva alleggerito il cuore, così come vederlo sanguinare come un maiale sgozzato la fece palpitare di puro terrore. Sapeva cosa fare perchè lui era lì. Sapeva come comportarsi perchè, nonostante tutto, era presenta abbastanza per darle indicazioni, per dirigerla come un Orchestrante. Tutto quello che aveva imparato lo aveva sfoderato nell'attimo del bisogno e lui aveva sempre il riguardo di non farla vedere, mentre gli aghi affondavano nella pelle chiara. Lui, che era in grado di complimentarsi offendendo, lui, che le parole le mangiava a colazione. Lui con quella bambina dagli occhioni grandi, lui, che sarebbe dovuto sopravvivere per non lasciare Cecilia sola, perchè una bambina deve avere un padre e una madre, e lei lo sapeva bene. Fu 'love at first sight' con quel maledetto Corer che imparò ad apprezzare, invece che odiare, come tutti gli altri Corer.

Once you hit the ground, the only thing that can save you are the ones you love.

The hounds of hell...

L'espressione di Molly non era affatto lieta. Cole la stava trascinando in vicoli decisamente mal frequentati, lui e il suo vizio di cercare sempre il brivido, la sfida. Lei aveva da poco compiuto sedici anni. Si faceva incastrare facile, in quei casini. 

- Swift, non sono tranquilla.
- Ti ho detto di fidarti, sai che non ti ficcherei mai in un guaio dal quale non possiamo tirarci fuori.
- Sì, come quella volta sul treno, o quella dai Ming, o quella degli scorpioni o..
- Okay, okay, hai reso l'idea. 

Cole fermò il passo, si volse piazzandosi davanti a lei. La superava di una spanna, già, ed era destinato a guadagnare ancora una manciata di centimetri. Cercò i suoi occhi verdi con i propri, azzurri, il sorriso sfacciato, da schiaffi, la mano stretta alla sua, le dita intrecciate saldamente. Attorno sciamavano facce poco raccomandabili, che li guardavano, spiavano, ridendo di sottile ed inquietante malvagità. Lui le raccolse il viso con la mano, le sorrise in quel modo che le faceva colorare le guance di rosso e infiammare il viso. Si inumidì istintivamente le labbra mentre lui le scostava le ciocche castane da davanti gli occhi, relegandole dietro l'orecchio. Le posò un bacio sullo zigomo scaldato dall'imbarazzo:

- Vieni, andiamo, non stiamo qui che diamo nell'occhio.
- Ma...
- Winger, dai, prometto che ci fermeremo solo il tempo di una scommessa, solo una...
- Scommettere è peccato.
- Anche quello che abbiamo fatto ieri nel fienile.
- ...

Lei era imbarazzatissima, si fece piccola contro di lui mentre Cole prendeva a camminare con calma verso la sua meta: una bisca clandestina. Le scommesse fioccavano da ogni parte, c'erano molti tipi di scontri, si poteva scommettere pressochè su qualsiasi cosa, ma quello che li aveva portati lì era l'evento del giorno: combattimento tra cani.
Con il braccio teso si fece trascinare di malavoglia, sempre più rapidamente, per quanto fosse vestita come un ragazzo, non passavano di certo inosservati i lineamenti femminili, seppur spigolosi, il taglio felino dello sguardo, le curve docili in fioritura. Scesero una scaletta angusta diroccata tra le abitazioni, Cole l'afferrò per la vita e lei trasalì, irrigidendosi. Era tesa, aveva una strana sensazione, un nodo d'ansia che le stringeva la gola. Si appoggiò contro il petto del pilota, deglutendo a vuoto un paio di volte prima di staccarsi dalla parete e fare un passo in una bolgia, un girone infernale. Lui le era accanto, ma per una manciata di minuti le mancò il fiato. La stanza era interrata, la luce piombava dall'alto attraverso delle grate poste sul soffitto che facevano cadere anche la pioggia e la polvere dalla strada di superficie. La terra battuta disegnava un cerchio con la calce, le catene serravano bestie enormi, rabbiose e grondanti bava e sete di sangue. Picchiati, colmi di cicatrici. Era una scena orrenda e lei non capiva come ci fosse finita lì. Poi vide lui, in punta di piedi, con gli occhi rapaci a caccia. L'uomo che cercava era un piccolo cinese, giovane, come lo sono tutti, con la pelle tesa, la testa rasata se non per una sciocca treccina che partiva dalla nuca. Aveva la spalla e mezzo busto completamente tatuati, come parte del collo e le dita, una cicatrice gli tagliava la faccia da tempia a sotto il mento, verticalmente, i denti era un miracolo se, in un conto totale, arrivavano alla dozzina. Mani svelte, occhi liquidi, neri, animati da una luce irrequieta, al limite del paranoico. 

- Cole, non mi piace.
- Stai serena, Winger, faccio una puntata e torniamo, dai, una sola.
- Ma perchè è così importante? Sono solo scommesse. 
- Non è mai solo una scommessa, ricordatelo.

Era maledettamente serio e lei arretrò di un passo, sbattendo contro la parete viscida e sporca. Rimase immobile, lì, con gli occhi dilatati, praticamente ignorata da tutto, inglobata da un caos senza eguali. Cole le raccomandò con lo sguardo di non muoversi e si avvicinò al cinese. Gesticolarono, discuterono e alla fine il ragazzo piazzò nelle mani dell'allibratore la somma di denaro da puntare sul prossimo combattimento. Era un rotolo di banconote sgualcite, sudate con i lavori onesti, e sporcate dalle scommesse stupide che puntualmente faceva e vinceva. Seguì la scena da lontano, al rallentatore mentre la gente attorno urlava sventolando mazzette di soldi più o meno puliti. Nell'arena fecero trascinare delle  gabbie dentro le quali gli animali erano incatenati, pungolati e incattiviti da urla e minacce, percosse e intimidazioni. Si riscoprì a fissare gli occhi su quei poveri cani, attonita ed impaurita. Le loro fauci erano grondanti di bava, negli occhi dimorava la follia, la rabbia instillata goccia dopo goccia da persone crudeli e senza scrupoli. Squittì quando si sentì prendere il polso, volse lo sguardo allucinato sul viso preoccupato di Cole.

- Winger, stai bene?
- No, voglio andare via.
- E' quasi finita, stringi i dent-

Si interruppe bruscamente. Il suono metallico delle gabbie aperte, il latrato feroce degli animali lasciati liberi assieme a quello del pubblico, brutale, inumano. Vide il peggio della razza umana tramutarsi in sangue e guaiti. Strinse gli occhi, voltò la faccia per nascondersi tra le braccia del ragazzo. Non voleva vedere, ma sentiva, ed era ancora peggio. Provò a tapparsi le orecchie, sentì una rabbia violenta stringerle la gola, soffocare il respiro. Tremando, Cole le prese le spalle, per tirarla fuori di lì. Stava male, sentiva il bruciare delle lacrime dietro le palpebre serrate, implorava a bassa voce di uscire, le mancava l'aria ad ogni morso assestato, ogni gemito, ogni fiotto di sangue caldo e l'odore nauseabondo che imprestava l'aria. La trascinò di peso e, quando furono fuori, si sporse oltre il vicolo a prendere la luce del sole, l'aria, la polvere delle strade. Gli rimase aggrappata, mentre lui le teneva gli occhi addosso.

- Winger, you ok?
- I am now.

Le sfiorò la guancia con il dorso delle dita, era rigata di lacrime. La sua espressione si ruppe, dolente, colpevole. Stava per schiudere le labbra, vedeva nei suoi occhi il tentativo vano di trovare parole per giustificare quella situazione, ma era mortificato. La scintilla di passione per il pericolo si era sopita dietro la spinta di una naturale preoccupazione. Le cinse le spalle esili, strette in una camicia maschile troppo larga, se la premette contro il petto, posandole un bacio tra i capelli.

- Scusa, Winger, non succederà più, te lo prometto.
- ...
- Ehi, tu!

Cole si voltò di scatto, Molly sporse lo sguardo arrossato e bruciante oltre la spalla del biondo, indovinando i tratti meschini dell'allibratore... e dei suoi compari.

- Cosa vuoi, Ching?
- Tu hai un debito.
- ...
- Swift, di che parla?
- Niente Winger, non sono cose che ti riguardano. ( ... ) Ascolta ti ho dato i soldi, comunque sia andata la puntata, ti ho dato abbastanza per coprire tutto, anche i debiti. 
- L'animale è morto. Tu sai cosa comporta, vero?
- Non posso farci nulla, mica gli ho sparato io.

Molly fece per uscire dal vicolo, trovandosi però una montagna di grasso e muscoli flaccidi, tatuato, che spingeva verso l'interno, costringendo lei e Cole ad arretrare verso l'altro cinese. Il tirapiedi superava entrambi di una buona manciata di centimetri ed occupava pressochè tutto l'imbocco del vicolo, per quanto era largo: un maledetto armadio. Si aggrappò al biondo che a propria volta fu costretto a frapporsi tra il cinese dall'altro lato del vicolo e la ragazza. Quando raggiunsero lo spiazzo polveroso antistante l'accesso della bisca, Cole fu preso di lato, strattonato e tirato in disparte.

- COLE!
- No, aspetta, Molly... lei non c'entra, Ching, lasciala!
- Mollami montagna di lardo!
- Lasciala andare!
- Dahhhh no!
- Pagami, Jackson e alla tua fidanzatina non succederà niente. Ma se non dovessi saldare i tuoi debiti...

Molly si sentì alzare di peso, mentre scalciava e si dibatteva cercando di liberarsi da una presa troppo forte. Era un dannato gigante, quel giallo maledetto, e le strappava il respiro in gemiti soffocati stringendole il torace, comprimendole la cassa toracica impedendo così ai polmoni di espandersi del tutto. Si sentì scaraventare in una fossa, sotto il livello della strada. Battè duramente la schiena, e quando riuscì a puntellarsi la luce che filtrava dalla grata e la polvere sollevata si depositò ovunque. Allungò la mano, trovò qualcosa di freddo, appiccicoso. Il palmo davanti agli occhi era rosso di sangue, volse il viso e trovò il cadavere del cane che aveva perso la sfida, la gola aperta da un morso, completamente cosparso di tagli, cicatrici. Urlò, fino a farsi bruciare la gola.

- Bastardo, lei non c'entra nulla!
- Pagami, Jackson, adesso.
- Non li ho!
- Che peccato.

Sentì il suono del metallo contro il metallo, le grate si sollevarono e vide i denti bianchi sfavillare nella luce riflessa. Ringhi minacciosi le rimbalzarono attorno, erano ovunque, circondata. Cani rabbiosi, feroci, stuzzicati dall'odore del sangue. Si voltò, non c'era via d'uscita a parte la grata sulla sua testa, tenuta chiusa dal peso di quell'uomo gigante che ce l'aveva buttata.

- Dio! COLE!!
- MOLLY, merda, Ching se le fai del male non avrai un dannato peso, lasciala e ti pagherò.
- Pagami e la lascerò.
- COLE FA QUALCOSA!

Uno dei cani scattò, se lo vide balzare addosso ma la catena era troppo corta, si strozzò, uggiolando e dovette rientrare, scalciando e agitandosi per tentare di liberarsi, la bava sparsa ovunque la colpì in faccia, non poteva spostarsi, perchè era esattamente al centro, avvicinarsi a una delle grate aperte significava dare la possibilità ad un'altro cane di aggredirla.

- Va bene, va bene, tirala fuori di lì e andrò subito a prendere i soldi.
- Comincia a correre, Jackson.
- TIRALA FUORI

Il suono di una catena allentata lo fece impallidire, così come lei, un secondo bisonte senza un occhio uscì dalla sua cuccia e per poco non le afferrò una caviglia, si rannicchiò su sè stessa, piangendo lacrime amare, il sangue della bestia stesa accanto ad imbrattarle i vestiti. Sentì la puzza serrarle lo stomaco, le venne la nausea, un fiotto acido che la portò a chinarsi in avanti e rigettare per la paura.

- Corri.

La voce del cinese era inflessibile, bassa, impostata in modo da non lasciar intuire nulla delle sue intenzioni, la perfetta faccia da poker. Cole fu costretto a cominciare a correre. Lei non ricordava nemmeno quanto tempo rimase chiusa lì sotto, a sentirsi male, spaventata a morte e circondata di animali incattiviti che rischiavano di afferrarla ad ogni disattenzione. Si sentì una preda, chiusa in un angolo. Pregò con tutto il suo cuore che Cole volasse come il vento, che trovasse quello che doveva, che venisse a tirarla fuori dai guai.

- Tranquilla, non ti lascerà qui a morire dilaniata dai cani. In fondo è un bravo ragazzo. Un coglione, ma un bravo ragazzo.
- E se non trova i soldi?
- Li troverà. 
- E SE NON LI TROVASSE?
- ... Non alzare la voce, si agitano, i cani.

Ching era chinato sulla grata, la guardava dall'alto, le mani tatuate appoggiare sulle cosce sottili, era nervoso, una muscolatura tesa, non forte, ma decisamente agile. Deglutì. Era maledettamente cortese, viscido fino al midollo. Sospirò, ormai dilaniata dai pensieri, tornò a rannicchiarsi fino a che non sentì il motore di una outback, fin troppo familiare per lo scoppio scandito. Si alzò, provò a mettersi in piedi ma non c'era nemmeno spazio per farlo, appoggiò le dita sulla grata, si agganciò, schiacciando la faccia lì mentre i cani giravano attorno, legati alle loro catene.

- Visto?
- Tirami fuori.
- Prima voglio vedere il colore dei suoi soldi, piccola, funziona così. Mai lasciare andare la posta, fino a che non sei saldato.
- ...
- ECCOMI! Liberala!
- Dammi i soldi. 
- WINGER, stai bene?
- Vaffanculo Swift!
- I soldi, Jackson...
- Come faccio a sapere che, se te li do, la lascerai andare.
- Perchè altrimenti allenterò le catene.
- ...
- Dagli questi fottuti soldi!
- ...
- Ascolta la ragazza, Jackson, fai la cosa giusta.

Lo sentì esitare. Non lo vedeva, ma percepì sotto pelle quella sensazione inquietante crescere. Un cane provò ad azzannarle la caviglia, afferrando il pantalone che si lacerò in men che non si dica. Fortunatamente aveva gli stivali a protezione, il cuoio robusto era l'unica barriera tra la pelle chiara e quelle zanne feroci.

- Cristo iddio, Cole, aiutami! Ti prego!

Non sentì niente, si aggrappò alla grata cercando di occupare il minor spazio possibile, con l'incalzare degli animali attorno. Di punto in bianco l'appoggio venne a sparire, si sentì tirare su di peso, e depositare a terra. Tremava, era sporca di sangue, del proprio vomito.

- Sei stata coraggiosa, ragazzina.

Ching le stava davanti, abbassato sulle gambe per guardarla meglio. Sorrideva, mentre si intascava i soldi di Cole. Non aveva tanti denti, era viscido, ma lei era viva. Cole le si precipitò addosso, afferrandola sotto le ginocchia e dietro la schiena, per tirarla in piedi e trascinarsela via. Lei aveva gli occhi fissi su Ching, accanto a lui un grosso molosso, seduto, con occhi piccoli, crudeli, molto simili a quelli del padrone. Lui la mise cavalcioni sulla moto, avvolgendola da dietro, mise in moto mentre lei posò le mani sul manubrio, reggendosi come poteva. Fecero circa un paio di chilometri, prima che lui fermasse la moto.

- Piccola...
- Non dire niente, portami a casa.
- Ma...
- No, Cole, portami a casa.

Ce la portò, e lei lì si chiuse, a smaltire lo spavento. Non lo volle vedere per settimane, evitandolo come la peste. Decise di non andare più a studiare al monastero, preferì invece affinare quel poco che aveva appreso stando in compagnia del medico del paese. Un giorno lui si presentò lì. Cole. Il medico fece orecchie da mercante, in fondo, tutto il paese sapeva di loro due, di come si prendevano e lasciavano, di come combinavano guai ma che, in fondo, erano fatti l'uno per l'altra.

- Cosa vuoi?
- Volevo vederti.
- Non farmi quegli occhioni, non attacca. 
- Mi dispiace.
- Non basta, Cole. Ti rendi conto in che situazione mi hai messa?
- Io...
- Tu. Tu non pensi mai. Ogni cicatrice, ogni osso rotto, ogni lussazione, ogni dito o polso o caviglia slogata hanno la tua firma, da qualche parte. Ti rendi conto che potevo non uscirne viva? Almeno questo! 
- Lo so, Molly. Mi dispiace. Che devo dire ancora?
- Prometti che non mi metterai più in queste situazioni. 
- Te lo prometto.
- E non scommettere più con certa gente.
- Ma Molly...
- Cole, non sto scherzando, fino a che avrai a che fare con gente alla stregua di quel Ching, non vorrò mai più avere a che fare con te.
- Cocciuta.
- Idiota.
- ...
- Giuralo.
- Lo giuro.

***

Non ci andarono più alla bisca, e, per quanto ne sapesse lei, Cole non aveva più fatto quel genere di scommesse e si era tenuto ben alla larga da quel genere di situazioni. Le rimasero però i segni. Passeggiando per la strada, incontrandoli per puro caso, il solo vedere un cane o sentire un latrato le metteva addosso ansia, terrore. Finì per odiarli, non riuscire a ragionare lucidamente davanti ad un cane: cinofobia. Così la definì il dottore quando, scontratasi con un branco di randagi, finì per svenire in preda all'ansia, l'assenza di respiro, il terrore angosciante.

- Si può sapere che diavolo ti hanno fatto questi poveri animali perchè tu reagisca così?
- ... 
- Winger, sto parlando con te. Deve essere successo qualcosa, lo dice anche il dottore.
- I...
- You?
- They are wicked creatures... hounds of hell!

sabato 22 dicembre 2012

Whatever happens, don't let go of my hand...

Il freddo era penetrato sin dentro le ossa. Blackrock non era accogliente, non aveva nulla di piacevole e, da qualche ora, aveva anche assunto un aspetto spettrale, inquietante. Sul petto le gravava un peso indistinguibile, tra i mille pensieri che cercava di soffocare, ingollando sorsate generose di bourbon. Rise, ma era un suono metallico, graffiato, come le unghie contro una superficie liscia, come acciaio contro acciaio. Non c'era niente di divertente e lo sapeva bene. Nonostante avesse salutato Vergil da almeno un ora, ancora non era rientrata. A piccoli sorsi stava uccidendo quella bottiglia che invece il Capitano, assalito dai suoi personali fantasmi, si era smezzato, solo su quella rampa a guardare il buio. Cercò a lungo, con gli occhi puntati al cielo, una costellazione a forma di fulmine. Non erano i suoi cieli, erano quelli di un Vergil diverso da come lo conosceva.
Sapeva di aver sbagliato. Non avrebbe dovuto. Insistere a quella maniera su di una sciocca promessa che nessuno voleva mai fare. Una promessa che l'inseguiva, in passato come ora. C'era qualcosa di strano, maledettamente strano. Aveva sperato tutta la sua vita di ottenere quella promessa: prima dallo zio, dall'amore quello acerbo della gioventù sfrenata, dal padre. Promesse disattese, mai fatte, mai espresse. Lui invece glielo aveva promesso, ma era piatto. Ripetuto per dovere, in una forma di dolore che percepiva sotto pelle come il formicolio lasciato da una scarica elettrica. I ruoli invertiti. Lui mettere spalle al muro lei. Accettare passivamente la possibilità che avrebbe potuto finire a Fargate, per proteggere loro, tutti loro. 
"Non lascio indietro nessuno, mai" ma lui non voleva saperne. Aveva usato la carta dell'affetto, il legame indissolubile con quel diavoli sputati dal buio: il fratello, la sorella, il dottore. Dovevano uscirne puliti, tutti.

- No! Col cazzo. Non ho intenzione di stare a guardare mentre ti sbattono in galera, te lo puoi anche scordare!  
- Anya sta rischiando grosso e quel tipo non la molla, e non mollerà...  J.D. e quell'altro non hanno neanche i documenti in regola..e Ritter.. Ritter ha già un paio di condanne ed è stato interrogato su una 'semplice' visita. e..tu. Che vuoi fare..? Fargate. Ci sono accuse di terrorismo Molly! Se le cose si mettono male, nessuno di voi deve essere collegato. Il modo migliore è questo. Fidati. Poi si calmeranno finalmente le acque.
- No. Al diavolo Fargate. Si fottano i marines. Non ho paura! Deve esserci un altro modo! Perchè vuoi per forza lasciarmi, mh? Io non lascio indietro nessuno. No. No. E no...! Non è giusto! No.
- Non è giusto. Hey. Hey! Hey.. Non mi sto costituendo. Dobbiamo solo cercare una via di fuga, tutto qua. Riesci a farlo per i tuoi fratelli, per Ritter..
-  Promettimi che tornerai. Whatever happens dovesse la marina separarci prometti che tornerai. Giura!
-  As you wish.. 
-  Say it. Swear.

Poi il passo falso. La confusione, dopo la rabbia e le confessioni, la paura sfogata con le urla. Un bacio. Uno di troppo, ma mai abbastanza. Sapeva, nel momento stesso in cui lui cercò lei, che era colpa sua. Aveva sbagliato. Trascritto il passato, forzato la mano per cercare di cambiare quello che è stato, come una stupida. Non si può cambiare quello che ormai è definito. E lui non si meritava quel dolore che gli ha letto negli occhi. Non poteva nemmeno incolpare l'alcol per quello che era successo, poteva solo incolpare sè stessa, il proprio egoismo. Lo aveva messo spalle al muro e quando lui si è trovato costretto a reagire, lei ha ceduto, in uno schianto. Lui che la stava solo proteggendo, lui che la stava raccogliendo, un pezzettino alla volta, ricucendola in un abbraccio solido, implacabile. Era stata una stupida e lui ne aveva subito le conseguenze, ancora una volta. Il rammarico che gli leggeva addosso, cucito da quelle scuse che non dovevano venire da lui, ma da lei. Strinse le dita attorno alla tuta, tirandosi contro il trench del Capitano. L'ultimo sorso di bourbon, non una stella in cielo. Gli occhi chiari arrossati, cerchiati dall'assenza di sonno. Il tempo congelato nella testa, dove continuò per altri interminabili minuti a rivivere tutto, rendendosi conto di quanto crudele sia stata, di quanto sciocca ed insensibile. Eppure, il calore di quel bacio riusciva ancora ad infiammarle le guance. Poteva qualcosa di così sbagliato risultare allo stesso tempo così piacevole? Lo aveva respinto e lui l'aveva accantonata, costretto, da lei, dai suoi modi, la sua sentimentale arroganza. Si odiava, una volta di più. 

- Winger?
- Cooter.
- Mh. Entra e chiudi, fa freddo.
- Mh.
- Cos'hai?
- Fantasmi.
- Seppellisci i morti, ragazza, non possono tornare. Let them rest in peace. 
- Stars aren't shining.
- Lo fanno sempre, anche se non le vedi. Vieni Winger, è tempo che tu dorma. 
- Mh.
- ...
- Trig...
- Winger?
- Scusa.
- ... smettila, alza il culo e muoviti.
- Ma...
- Molly, ascolta. Tutti sbagliamo, siamo umani, siamo sbagliati di natura. Però dagli sbagli si deve imparare. Tu sei giovane. Lasciati il tempo di vivere, di sbagliare e migliorare. La vita è breve, piccola, non aggrapparti a ciò che è morto. Live and let live.

Lui sapeva come si sentiva. Lo seppe dal primo momento che incontrarono gli sguardi. Il dolore non sarebbe mai sparito, forse affievolito, ma mai cancellato. Le cicatrici dell'anima non si vedono, ma ci sono e ci saranno sempre. Scosse la testa, si fece aiutare, scolando l'ultimo goccio di bourbon. Appoggiò il palmo sul pulsante, il portellone della rampa richiamato. Era tempo di chiudere, di tornare in cabina, forse di dormire. 
Una cosa la sapeva, per certa. Avrebbe dovuto parlargli. Lo avrebbe fatto, appena possibile, perchè la preoccupazione non era uno spettro passato, un refuso antico. Era palpabile, pulsante e le stringeva il petto e il cuore. Non era falso quel palpitare, era complicato, era difficile ma non del tutto sbagliato.

Whatever happens, don't let go of my hand...  

giovedì 20 dicembre 2012

There's no peace for the wicked...

Pensava che, una volta decollati, abbandonata l'atmosfera di Greenfield per lo spazio aperto con rotta sullo Skyplex sarebbe riuscita a dormire, ma si era illusa. Nella sua cabina aveva provato a chiudere gli occhi, fare respiri profondi, rigirarsi mille volte in mille posizioni diverse, provando a scavarsi una fosse nei sogni, ma così non fu. Era andato tutto storto. Il mattino era riuscita a trovare segni nell'incontro con quello che ormai aveva definito l'Hijo de la Muerte. Cristobal era di Maracay, di Fidelidad. Tatuato dalla testa ai piedi, uno zombie boy, un morto che camminava. L'incontro con Ilias, il medico di Corona. Corona, come Ritter. Ritter, che non era più confinato nel pit, non più. Lui, Sterling, Geibì e Cecilia erano finalmente liberi di uscire. Era andato tutto bene, le gabbie aperte, ali spiegate eppure c'era qualcosa che non quadrava. Aveva pensato che fosse stato per Red, che in fondo, ancora non si perdonava l'averlo assecondato e spedito di nuovo in galera, la colpa se la sentiva appiccicata addosso. Aveva pensato fosse il timore che quel dottorino Corer non sapesse farsi i fatti propri, andasse curiosando troppo in giro. Aveva pensato fosse a causa di Anya, del fatto che era rimasta lì, scegliendo di andare con Chaplim quando invece poteva partire definitivamente con loro. In parte era anche quello. L'idea che alla sorella potesse essere scoppiato tutto in viso, travolgendola, le metteva ansia, ma non sentiva di poterle scrivere. Non aveva appigli e per la prima volta aveva anche temuto di dover mentire al fratello. Per evitare una cosa simile, finì per chiudersi nella propria cabina, in silenzio. Dopo l'ultimo messaggio di Trigger, che confermava di aspettarli a Hall Point, spense il c-pad. Lo ripose sotto il cuscino, rimanendo a fissare il soffitto di metallo. Il respiro regolare, le dita intrecciate sotto il diaframma. Sbatteva le palpebre, ripetutamente, cercando di mettere a fuoco ogni cosa, il susseguirsi disordinato degli eventi. Ha arrotolato l'holofilm dell'ultimo mese avanti e indietro per ore, senza aver voglia di uscire, senza riuscire a mangiare, nemmeno una sigaretta. Erano tutti liberi, però un tarlo nella testa batteva e batteva. 
"Se devi scopartelo" Che diamine significava?
"Lontano da me." Perchè?
Anya era riuscita a parlarci, con il Capitano. Lei, è vero, lo aveva evitato. Aveva paura. Non tanto che la sbattesse fuori dall'equipaggio, anche quella era una possibilità, ma quello che temeva più di qualsiasi altra cosa era leggere la delusione nei suoi occhi. Quello no, non lo avrebbe sopportato. 
"Se devi scopartelo" Come diavolo gli veniva in mente una cosa simile? Scrollò il capo, non riusciva proprio a dare un senso a quella situazione, alla strana sensazione che le stringeva il petto, la gola. Affondò il viso nel cuscino, si nascose tra le coperte, finendo per stringere gli occhi e cercare di annegare nel silenzio i propri - troppi - pensieri. 
Doveva parlargli, ma non aveva il coraggio. 
Doveva guardarlo negli occhi e dirgli che le dispiaceva.
Doveva guardarlo negli occhi e affrontare la verità sepolta dietro il cipiglio severo e arrabbiato del Capitano implacabile che era. 
Mugugnando si rigirò venti volte, mordicchiando l'angolo della federa. La pistola brillava appena, nuova, mai usata, carica. Doveva svuotare il tamburo, ma non ne aveva voglia.
Era arrabbiato.
Lo aveva detto anche la sorella.
Era arrabbiato... o deluso?
"Se devi scopartelo..." ma perchè?
BASTA!

Doveva dormire. Subito. Il viaggio sarebbe stato lungo. Doveva dormire. Poi, avrebbe parlato, forse. Piccola pavida creatura.

There's no peace for the wicked. Never.

martedì 18 dicembre 2012

Come rain or come shine...

Seduta in plancia osservava fuori dal vetro spesso della Monkey. La tazza di caffè fumante accanto, il posacenere pieno di mozziconi di sigarette e il bocchettone dell'aria che aspirava via il fumo per filtrarlo e ricacciare aria pulita nella nave. Per tre volte di fila si era spostata, controllando dalla passerella sospesa che non vi fosse nessuno, che la stiva fosse chiusa, così come un controllo agli airlock superiori. Il c-pad al polso, l'auricolare nell'orecchio le trasmette registrazioni, scaricate tramite il computer. Le mappe stellari spiegate davanti a lei, il riflesso di miliardi di stelle a tenerla sveglia la notte, a guardia, pronta a svegliare il fratello. Joe Black era finalmente uscito dal pit, potendo prendere aria, lavarsi, cambiarsi e vivere da essere umano almeno una nottata, dopo una sana cena, in attesa che la situazione si sbloccasse. Erano passati non si ricordava nemmeno quanti giorni da che la Monkey era stata messa sotto sequestro. Red era in ospedale, piantonato, con due proiettili in corpo. Quel pensiero continuava a bussarle alla mente. Strinse la presa sulle piastrine sotto la maglietta, le sfilò, lasciandole penzolare davanti gli occhi chiari, le palpebre appesantite. 

- Che gran casino. E' davvero un gran casino.

La voce rimbombava tra le paratie. Si alzò di nuovo, finendo per appoggiarsi contro il portello che dava alla cabina di Dragan. Nel silenzio cercava di percepire il respiro del fratello, improbabile, visto le porte stagne. Sospirò. Non riusciva a chiudere occhio nè poteva permetterselo. Tornò indietro, riguadagnando la comoda poltroncina, ruotò su sè stessa, fissandosi attorno. Pensava, troppo. Lo aveva detto con Geidì nel Sanderson Pit: pensare troppo fa male, ma non poteva farne a meno
Anya non c'era, Ritter, Sterling, Muto nel buco assieme alla bambina da troppo tempo, Cecilia non poteva resistere oltre e non riusciva davvero a trovare una dannata soluzione. Agoniava e in parte tremava all'idea che Vergil ormai fosse di ritorno. Così come Anya - anche se per scena - come Geibì, sapeva in cuor suo che il Capitano l'avrebbe strigliata per bene. Non era stata una grande idea, ma al momento sembrava ancora l'unica. Si sfiorò la guancia, allungandosi a guardare il riflesso in uno schermo spento notò ancora l'alone del livido. Anche le braccia portavano addosso i segni, erano utili indubbiamente a suffragare la teoria della minaccia, del tentato sequestro. 
Non poteva fare a meno di pensarci. La scena ce l'aveva stampata in testa. La granata al fumo, la nausea, le lacrime, la voglia di sparire mischiata all'acido dello stomaco che saliva e la paura, tremenda, che gli succedesse qualcosa. Sapere di non poter intervenire eppure avere voglia di farlo, specie quando Chaplim neutralizzò il pilota con un calcio contro la tempia. Uscire da quel guaio senza conseguenze per la Monkey, per Anya stessa, non era così semplice come credeva. Ci sarebbero state ripercussioni. L'idea di quello che le disse il Tenente durante l'interrogatorio o deposizione che fosse, le rimbalzava ancora in testa:
"Protezione testimoni" sarebbe stata la fine.

- Non posso permettermelo. Se succedesse dovrei lasciarti, sai?

Parlava alla nave. Era l'unica con cui poteva parlare. Anya su Horyzon, Vergil lontano, il fratello a dormire sogni quieti e rinvigorenti nella sua stanza. Trigger... il pensiero scivolò di nuovo al co-pilota ed inevitabilmente sprofondò nei ricordi. Stringersi al pistolero nel Sanderson Pit le aveva ridato un minimo di sicurezza. Lo scontro con Anya aveva toccato nervi scoperti, messo la sua sopportazione a dura prova e riversato il suo caratteraccio all'esterno, diventando sgradevole anche quando non avrebbe voluto far altro che abbracciarla e rassicurarla che sarebbero uscite dai guai. 
Il messaggio la mattina da parte della sorella le aveva alleviato in parte il senso di colpa, ma non del tutto. Ad essere onesti con sè stessi, nemmeno il passare la giornata con J.B. aveva risolto i suoi dubbi più grandi.
Chiuse gli occhi. Un grande respiro e un sorso di caffè, prima che, nel c-pad, risuonasse un messaggio vocale lasciato da Swift.
"Domani parto per Hera, io e Dale saremo al fronte. Pà e Dusty si sono piazzati su di un Brigade fighissimo e tu ti divertiresti un sacco a pilotarlo sai? Scivola che è una meraviglia, davvero. Una bambola. Certo, non quanto te. Io, Winger... mi manchi, tanto. Mi mancano le nostre corse, il fastidio di averti sempre tra i coglioni. Sai, ho visto un sacco di ragazzi come noi, nelle stesse situazioni. A volte vorrei correre a casa da te, ma poi mi ricordo che non abbiamo più una casa. E' stato un duro colpo per D. e papà, lui... però non è colpa vostra, Winger. Cerca di ricordarlo sempre. Non è stata colpa vostra. Nè tua, nè di tuo padre ma di questi fottuti unionisti. Vendicherò la mia famiglia, Winger, e poi tornerò a prenderti."  
Non era colpa sua. Allora, nè ora. Erano le stesse parole che le aveva detto il fratello nel Pit. Non doveva sentirsi in colpa, ma non poteva fare a meno di pensarci. Chiuse gli occhi, passando le dita sulle palpebre arrossate, bruciavano. Un lungo respiro, uno sguardo stranito alle mappe che spense, facendo svanire in un puntino verde l'immagine mostrata sul monitor di bordo. Il pensiero scivolò rapido verso il padre, il senso di colpa che lo aveva inchiodato a terra, su Richleaf, a farsi consumare dal tempo e dal whiskey sintetico di bassa lega

- Che dici, bimba? Farò la stessa fine? Spero ardentemente di no. In fondo, lo dice anche il brò, non è stata colpa mia.

Sorrideva, ma non c'era luce. Il pomeriggio passato aggrappata a J.B. le aveva ridato un minimo di fiducia, dopo essersi sentita la causa di tutti i guai. Un rumore la fece voltare. Controllò gli ASU, tenuti accesi per accertarsi che nessuno si avvicinasse a loro non visto. Era tutto in ordine attorno, il Pit non si distingueva. Però non era tranquilla, afferrò la tazza e tornò a guardare verso il corridoio. Si spostò, così da raggiungerlo e provare ad accedere alla cabina del fratello. Lui dormiva tranquillo. Fece un lungo respiro, rincuorata. Si era sbarbato, pulito e dormiva come un angioletto. Approfittò di quei momenti di silenzio per avvicinarsi a lui e sedere accanto. Allungò la mano. Nonostante tutti quei muscoli pompati, manipolati dalla scienza genetica della Blue Sun, sapeva che in lui poteva confidare, sempre. Era da tanto che non si fidava così di qualcuno in maniera così diretta. Gli carezzò la guancia mentre dormiva, provando ad essere il più delicata possibile, per timore che potesse svegliarsi di soprassalto. Il ricordo dei suoi occhi spiritati e turbati nel Pit le diede una scarica di dolore, diritta al petto. Si morse il labbro inferiore, il taglietto tornò ad aprirsi, il tessuto molle faticava a rimarginarsi. Un lungo sospiro e sentì la voglia di accoccolarsi al fratello. Non poteva, però, perché nessuno avrebbe vegliato su di loro. Aveva promesso alla sorella che si sarebbe presa cura lei, di lui, finché era lontana, non poteva cedere all'istinto di volersi nascondere, sprofondare dove sapeva di essere protetta. Doveva assicurarsi che passasse la notte indisturbato. Si sporse, per baciargli la tempia, gli rimise apposto le coperte e poi risalì le scalette, chiudendo la cabina alle proprie spalle. Doveva stare di guardia. Mise a fare altro caffè, forte, nero, cercando di sbrogliare la matassa che a propria volta aveva contribuito ad annodare. Tornò in plancia. Voleva andare nello spazio, voleva sentire la musica delle stelle, come le aveva insegnato la sorella a fare. Il mal di terra le aveva preso lo stomaco. Gorgogliava, si contorceva, ma doveva tenere duro. Mise della musica, per riempire l'ambiente, bassa abbastanza da non confonderla, ma presente abbastanza da scacciare i pensieri che tornavano ad affacciarsi.

Come rain or come shine, I will never leave you. Never ever.
    

mercoledì 12 dicembre 2012

Clear blue skyes and baby eyes...

Era estate. Dalla finestra di camera sua, al primo piano della casa del nonno, si vedeva il placido ondeggiare dei campi coltivati, si sentiva il frinire delle cicale. Le tende bianche si spostavano appena; non c'era molto vento, ma abbastanza per mitigare l'arsura. Aveva passato tutto il giorno a fissare fuori della finestra. Le mappe stellari, le rotte tra i sistemi erano sparpagliate sul suo letto. Erano quattro settimane che Molly era bloccata in quella stanza, quattro settimane d'inferno. Era talmente esasperata che il padre aveva preso, la sera, a raccoglierla tra le braccia e portarla al piano di sotto, in veranda, così da poter prendere un minimo d'aria, ma di giorno, non se ne parlava. Qualcuno doveva stare sempre con lei. A causa di quella frattura multipla, esposta, tra l'altro, il medico le aveva categoricamente proibito di alzarsi. Questo rallentava il lavoro. Jacob aveva deciso di stare a casa, ma lei non ne aveva voluto sentir parlare. Aveva otto anni.

- Non puoi mandare zio nello spazio da solo, Pà!
- Winger, c'è Trig con lui, e comunque non posso nemmeno lasciare te, ti pare?
- Ma posso stare con Mary Anne.
- Lei è incinta, ha tre figli, non ha tempo di badare anche a te.
- Ma io non ho bisogno che mi si badi, se quella palla di dottore non mi...
- Winger! Non si parla così di Lee, lo fa per il tuo bene!
- Ho capito, ma... insomma, non posso fare guai. Tu vai, al massimo mi aiuta Berta!
- Ma Winger...
- Papà, vai! Sto bene.

Non c'era verso. Aveva deciso che il padre sarebbe dovuto tornare a lavoro, nonostante lei fosse praticamente bloccata a letto. Si fece lasciare le carte, tutto quello che poteva intrattenerla e si chiuse in camera. Berta passava regolarmente a darle i pasti, a cambiarle il letto e aiutarla ad andare in bagno, quando era necessario. Aveva una strana gabbia di alluminio attorno alla gamba, spezzata in tre punti dal femore alla tibia. La caduta da cavallo era stata tremenda, ma non era quello che la mandava in bestia: non il dolore, non la colpa - che chiaramente era di Cole Jackson - ma il dover stare reclusa quando le giornate erano infinite e avrebbe potuto fare di tutto. Non aveva mai visto un'estate così tranquilla, il tempo così favolrevole, e mai ne avrebbe viste altre in tutta la sua miserabile esistenza. 
Il cielo era terso, di un incredibile azzurro. Era splendente, vivo e attraente. Bussarono alla porta. Voltò il viso e fece capolino un ciuffo biondo. Storse le labbra.

- Ciao.
- Cosa vuoi?
- Winger io, volevo solo chiederti...
- Va via.
- Ma Winger...
- Non voglio vederti, Jackson. Ti odio. Vattene.

Ci rimase davvero male, Cole. Cercò di insistere ma lei prese a strepitare e raccolse la ciotola con il pane ammorbidito nel latte freddo e gliela tirò contro, impattando sulla porta e spargendo resti del suo spuntino dolce un po' ovunque, assieme ai frammenti di coccio del contenitore. Non era il primo che rompeva, tirandogli appresso, ma sarebbe stato l'ultimo. Aveva deciso che non lo avrebbe mai perdonato per quello che era successo. L'idea era stata sua, lui era certo che non ci sarebbero state ripercussioni e invece, eccola lì, con quattro settimane di fermo e altre due che l'aspettavano al varco. L'unica consolazione che ebbe era di sentirlo urlare di dolore mentre il dottor Wong gli rimetteva apposto la spalla slogata. Fu meglio di qualsiasi altro antidolorifico e non si sentì nemmeno una brutta persona, a godere della sofferenza di Cole che in qualche modo la portava a distrarsi dalla propria. Adesso non c'era più il dolore, solo l'ombra minacciosa di rimanere zoppa a vita.
Il cielo era blu, intenso, vivo. Aveva una voglia folle di uscire ma non poteva muoversi, non glielo avrebbero permesso. Fissava il cielo fuori dalla finestra, cercando di intuire le forme di nuvole che non c'erano, o che si affacciavano solo di sfuggita, correndo via veloci. Era una giornata favolosa, poteva anche sentire le risate che correvano sulle ali del vento, dal fiume. Tutti erano al fiume, a fare il bagno, per mitigare il caldo. 

- Winger...
- Papà, quando siete tornati?
- Ieri.
- ...

Era perplessa. Non aveva sentito la nave atterrare. Non erano venuti a salutarla, come facevano sempre quando rientravano da un trasporto. Increspò la fronte, aveva i capelli sciolti sulle spalle, il viso imbronciato e un pochino pallido, provato dalla mancanza di libertà, di aria fresca, di sole e spensieratezza.

- E' successo qualcosa?
- Si tratta di Mary Ann.
- Ah?

Balzò sul letto, preoccupata. Mary Ann era una brava donna, buona, paziente, anche se un pochino rigida. Aveva un sorriso dolce, materno, ed un po' aveva anche provato a farle da madre, nonostante lei rifiutasse categoricamente qualsiasi surrogato femminile al proprio fianco.

- Stai tranquilla, non è nulla di grave. Ha partorito.
- Ieri? 
- No. Settimana scorsa, ma non stava molto bene.
- E adesso? E il bambino?
- Sta bene. Anche la bambina.
- Bambina?
- E' una femmina: Demi.
- Demi...
- Vuoi vederla?

Sgranò gli occhi. Ronda era nata che lei aveva cinque anni. Non ricordava molto, solo che era piccola e strillava un sacco ed era tutta rossa in faccia, chiazzata come se fosse malata. Non l'era piaciuto. Però, sapere che era nata quella bambina che scalciava come una disperata nel pancione di sua madre, mentre la donna cercava di aiutarla a lavarsi, spugnandola con delicatezza dove aveva le ferite, le dava uno strano senso di calore. Abbassò gli occhi sulla gamba. La gabbia metallica tirava sulla pelle, perni infilati nell'osso, i punti e una cicatrice appena visibile. Lee era bravo con l'ago, sapeva suturare in maniera talmente sottile da non lasciare segni. Vedere la pelle rimarginata lì dove invece era slabbrata e la scheggia d'osso rosa - tra il bianco e il sangue - sporgeva le diede un brivido. Annuì, senza esserne convinta e sollevò gli occhi chiari. Alle spalle di suo padre entrò il vecchio Trigger, ben più giovane e disteso di quanto non le fosse mai sembrato. Teneva un frugoletto verseggiante tra le braccia, avvolto da una copertina di cotone fresco. Sorrideva, Cooter Jackson. Sorrideva come solo un uomo fiero di sè stesso potrebbe fare. Si sedette sul letto e le porse la bambina. Demi. Le furono date indicazioni su come tenerla, sorreggendole la testolina, tenendola leggermente inclinata. Era pesante, per lei, ma se l'appoggiò addosso così che non potesse scivolare. Piccola. (Minuscola!) Non era rossa come Ronda, aveva un bel colorito chiaro, capelli sottili sottili sottili, biondicci quasi bianchi, un naso a bottoncino, le labbra leggermente crucciate, schiuse a respirare. Mani piccole, piccolissime, raggrinzite e serrate contro il bordo del lenzuolino. Dormiva. Molly non parlò, si limitò a fissarla intensamente, studiandone i tratti, il respiro calmo. Poi, di punto in bianco, spalancò lo sguardo e lei rimase di sasso. 

Cecilia. Molly spalancò gli occhi. La sua cabina era illuminata dalla luce del c-pad. Cecilia l'aveva guardata come l'aveva guardata Demi. Occhioni grandi, innocenti, pieni di una consapevolezza talmente acerba, così puliti ad affacciarsi al mondo che ti fanno sentire disgustosa, inadeguata, sbagliata. Eir gliel'aveva lasciata, da tenere come qualcosa di assolutamente fragile. Se le fosse caduta, se le avesse fatto male... non se lo sarebbe mai perdonato. Deglutì. La preoccupazione lavata via con il rilascio del dottore. La certezza, radicata, che con Cecilia non avrebbe fatto lo stesso errore commesso con Demi. Aveva dieci anni, tante speranze, tanta vitalità. Aveva dieci anni, voleva un cavallo per il suo compleanno. Avrà dieci anni in eterno, la piccola Demi Jackson

Cecilia vorrà un cavallo. Cecilia vivrà la guerriglia. Cecilia dovrà avere un padre. E una madre. Cecilia vivrà i giorni, con un bel cielo blu, ad inseguire nuvole e sogni.

sabato 8 dicembre 2012

To die, to sleep... perhaps to dream

"Forse mi considereranno una strega e mi daranno fuoco, per il trattore." Thompson non aveva tutti i torti. Bullfinch era davvero un pianeta strano, però era più simile a Shijie di quanto non lo fosse Shijie stesso, ormai. La Monkey era atterrata nei pressi dei terreni di Mason da almeno cinque ore. Scaricare jeep e trattore era stato facile, così come far firmare le carte e registrare il trasporto. Il difficile era stato reggersi in piedi. Il viaggio era immenso. La tensione dei giorni prima stentava davvero a stemperare e la sentiva, nei muscoli tesi, nei fasci di nervi. 
Dormire era diventato davvero un tentativo inutile, e stava dando fondo alle scorte di caffè sul Firefly.
Non poteva farci nulla. Ogni volta, con gli occhi aperti o chiusi che fossero, vedeva le stesse dannate scene. Il portellone che si apriva, il sibilare dei proiettili sotto la pioggia, la terra zuppa di sangue e acqua, sbocciare di inflorescenze nere, spaventose, come dita adunche protese dalla terra. Blu. Corse a perdifiato, la ritirata, la sconfitta bruciante e una cacofonica massa di schiamazzi gracchianti nel canale aperto.
Il piano lo avevano seguito. Nonostante i controlli appena fuori dall'atmosfera di Greenfield l'aveva scampata bella. E per fortuna che c'era Quinn. Con J.B. nel Pit assieme a Trigger e Saito, dovevano assolutamente allontanarsi e raggiungere Hall Point. Lasciare lì meccanico e fratello e andarsene per la loro strada. Non poteva fare a meno di Trigger, ma l'insperata abilità di Quinn ai sensori e alla guida le avevano concesso di recuperare, a piccole dosi, un minimo di lucidità e di energia. Solo con distanze siderali messe ormai tra sè e Greenfield, e la Marina Alleata, riusciva a chiudere davvero gli occhi.
Erano tutti sparpagliati e quello che è peggio, temeva prepotentemente per ognuno di loro. 
Però, per quanto duro possa essere, alla fine prima o poi il sonno arriva, taglia i fili che ti legano alla realtà e ti lascia precipitare in un mondo che è vero, concreto, tutto dentro di te, sotto quello stetson. 
Era stesa nella sua cabina, al buio. Trigger di guardia in plancia, con gli ASU attivi ad accertarsi che nessun genio del male volesse provare a rubare la nave, come hanno cercato di rubare loro le vite la prima volta. 
Stava sognando. Agitata, con le coperte impigliate alle gambe, le piastrine che tiravano sul collo sottile. Non era mai stato saggio svegliarla, ma il c-pad era acceso, il canale di comunicazione aperto in caso di emergenza. Poteva far alzare la Monkey in tempi invidiabili. Lo aveva già fatto. Aveva imparato a farlo. 
C'erano troppe cose che non andavano.
Ritter e quelle ferite erano una costante nella testa, non riusciva a cancellare l'immagine di quel filo trasparente, rosso, che correva dalla vena pulsante e livida di Neville, fino alla sacca appesa a poi giù, precipitando in quella del dottore, con un piede più di là che di qua. Però adesso Ritter stava bene, o almeno, così le aveva detto sua sorella. Il problema non era quello.
Sorrideva, il dottore. Non con le labbra, non con gli occhi ma sapeva che lo stava facendo. Nei suoi sogni tutto era maledettamente strano.
E poi c'era lui.
Lo aveva baciato. In un attimo di assurdità, la cosa più sbagliata della sua vita. Non era stato nemmeno importante. A stampo, sfuggevole. Per farlo stare zitto, perchè si era preoccupato, perchè non aveva risposto. Veloce, indolore, o così doveva essere. E perchè continuava a dannarsi per averlo fatto? Sarà stato il pensiero di lei, della pallottola col suo nome scritto sopra. Sarà stato che lui l'aveva trascinata per mano all'inferno e ce l'aveva cavata fuori, ancora una volta, senza un dannato graffio. Adrenalina. Paura. Fottuta paura. Ti fotte il cervello.
Anya era a lavoro. Chiamarla non serviva a nulla. Collaudava un mezzo per la Blue Sun. Era al sicuro, o almeno, lo era nella sua testa. 
Aveva bisogno di non pensare.
Geibì non lo aveva cercato. Aveva il terrore di sapere, ma era certa che se gli fosse successo qualcosa, Anya l'avrebbe avvisata. E così non era stato. Loro due erano un'unica cosa. Lo sapeva. Per quanto, ai suoi occhi, altro non fossero che le persone a cui affidare la sua vita, senza rimpianti, quei due, tra loro, avevano un filo rosso che saliva, dal cuore di Anya alla sua testa e poi da lì a quella di J.B. e dalla testa di J.B. al suo cuore. Come la flebo che legava Neville a Ritter. Era un'emozione strana. Era qualcosa che riteneva superfluo. Eppure faceva camminare quei due a testa alta. Avanti. Sempre più avanti. Aveva sempre avuto un bel sorriso. Era un idiota, specie quando beveva troppo, ma aveva quel gran bel sorriso e la sua pistola era sempre calda. Qualsiasi fosse il suo nome, quel ragazzo sarebbe sempre stato sì stronzo dall'utero in poi ma anche quello che non ti venderebbe mai, perchè lui sapeva che significava essere venduti.
Aveva bisogno di non pensare.
Non aveva mai staccato gli occhi dalla Dick Frick, mentre guidava, non aveva visto nessuno eppure sapeva che erano lì, che li tenevano tutti sotto tiro. Chiunque fosse in quel Firefly li odiava a morte. Terroristi. Loro? Era lei quella che aveva provato terrore, come poteva essere una terrorista?
Non poteva crederci. Ma era una cosa a cui non doveva dar peso. Si rigirava, avanti e indietro, scacciando le immagini di mille sorrisi: Ritter, Neville, Anya, Geibì, Dusty, Trigger, Swift, Jacob.  
"Papà?"
"Winger, cosa sei diventata?"
"Papà?"
"Winger, sei una terrorista, come tuo zio."
"Ma io... no."
"Winger, sei una ladra. Spacci droga. E' per questo che ti ho cresciuta?"
"Tu non capisci."
"No, non capisco. Spiega."
"E' difficile."
"Non può essere così difficile."
"Sono la mia famiglia."
"Io sono la tua famiglia."
"Non più. Mi hai mandata via, ricordi?"
"L'ho fatto per il tuo bene."
"Lo hai fatto perchè non sopportavi l'idea che ti ricordassi di tuo fratello. Bhè, sai che c'è. Non tornerà mai, sei contento? Mai più. Lui non tornerà, e io nemmeno."
Sentiva nella propria testa la voce dura, pesante. Tutto questo non era mai successo. Lui non sapeva quello che lei combinava della sua vita. Non l'aveva mai cercata da quando se n'era andata, anche se lei aveva chiesto a Djeval di passare per Fidelidad e vedere come stesse Il santo, non sarebbe tornata. Non avrebbe mai affrontato QUEL discorso.
Uno sparo. 
Si alzò di soprassalto. 
Tutto taceva, o quasi. 
Gli occhi sbarrati inquadrarono il c-pad penzolante accanto a lei, da lì la voce di Trigger usciva flebile, canticchiava. 
Aveva bisogno di non pensare.
Afferrò il pad, cercò in memoria il messaggio di Anya con il contatto di Dimitri Yuzov. Era arrivato.
Infilò gli stivali, si buttò addosso la camicia e usci dalla cabina, verso l'Airlock. 

Aveva bisogno di non pensare, a tutti quei sorrisi. O alle lacrime. E lui l'aiutò a dimenticare, giusto un paio d'ore.

Terror tastes like bad wine

Era quieto. Anya aveva nascosto la Monkey tra i canyon nella zona selvaggia tra Riverside e Jasonville. I motori erano in stand by, Trigger in plancia, gli altri a riposare. Lei era lì, in silenzio. Seduta sul pavimento dell'infermeria, con le gambe richiamate contro il petto, aveva osservato con calma il sangue che veniva aspirato dal braccio del Capitano per iniettarsi in quello del dottore e ridargli un minimo di energia. Aveva due perforanti in corpo, e lei non riusciva a pensare ad altro se non al fatto che Ritter, in quel momento, era la prova vivente della loro colpevolezza.
Doveva risolvere. Il sapore nel retro della gola non andava via. Come una brutta bevuta, un pessimo bicchiere di vino. Le riempiva il palato, raschiava la lingua contro ma nulla riusciva a distogliere l'amara consapevolezza di aver provato terrore. Reale, vero concreto terrore. Per sè, per loro.
Una pila di asciugamani insanguinati erano raccolti su di un telo di plastica, da buttare, bruciare, perdere nello spazio. Sicuramente l'Alleanza stava pattugliando ovunque, in massa, ma il pianeta non era poi così piccolo. Alzarsi in volo e lasciare il sistema di Dorado poteva non essere la migliore delle idee. Doveva pulire. Questo era poco ma sicuro.
L'IdN di suo fratello era scaduto, non poteva farsi vedere e li avrebbero sicuramente controllati. Hanno controllato Anya, con Lady, avrebbero controllato anche loro.
Sapeva di dover dormire, ma non riusciva. Appena chiudeva gli occhi, le raffiche di gatlin, gli spari, il sangue affluivano come un incubo facendole sgranare gli occhi e ritrovarsi ansante e agitata seduta sulla branda. Sul c-pad non erano passati nemmeno quindici minuti. La stanchezza c'era tutta, ma la testa non voleva darle retta. Il corpo era evidentemente provato. Se distendeva la mano davanti agli occhi, tremava, o forse erano i suoi occhi che vedevano i contorni sfocati e tremuli?
Ritter stava per diventare padre. Doveva essere curato. Si alzò, puntando le mani sul pavimento, mani sporche di sangue, a cui avrebbe dovuto porre rimedio. Si affacciò. La morfina non bastava, non con lui, troppo abituato. Le dosi erano alte, altissime, da cavallo, ma a lui non bastavano.
- Ehi
- Cox, che ore sono?
- Sarebbe ora di smetterla di far finta che stai male e tirare tutte le attenzioni su di te!
Scherzava, chiaramente. Aveva bisogno di stemperare, anche perchè, vederlo in quelle condizioni, pur non essendo un medico, le metteva ansia. E poi quel dannato ago.
- Sono un fottuto narcisista, lo sai.
Un colpo di tosse gli spezzò il fiato, facendolo chinare leggermente in avanti, con quell'ago infilato con dovizia e familiarità nella vena che si succhiava linfa vitale lenta, densa, da quel dannato folle che gli stava accanto, riposando, spossato per la nottata completamente fallimentare.
- Hai bisogno di un medico.
- Che intuizione, Cox.
- Ho un'idea.
- ...
Ci fu un attimo di silenzio, spezzato solo dal tentativo flebile di provare ad accendersi una sigaretta. La rotella di metallo che grattava contro la pietra focaia, senza però avere abbastanza attrito da creare scintille. Lo vide tentare, tre, quattro, cinque volte, poi non ce la fece più. Gli strappò la paglia dalla bocca, lo zippo dalle dita sottili e tremanti e glela accese, porgendogliela subito dopo.
- Ho un'idea.
Lo ripetè, sia mai che avesse avuto un vuoto. In fondo, era un maledetto drogato e si stava letteralmente spegnendo, una goccia alla volta, colando vita e genialità dai buchi dei perforanti, ormai parte di lui.
- Sono pronto.
- Tu hai bisogno di un medico e no, non interrompermi. Solo dio sa quanto sarai lucido ancora. Anya non può avere a che fare con noi, il suo lavoro alla Blue Sun è troppo importante. Geibì non ha IdN, non possiamo rischiare di perderlo per strada. Tu, con loro, scenderai a terra, il prima possibile, usando lo Shuttle. Anya ti troverà un medico. Starete nascosti. 
- ...
Ritter non parlava. Gli occhi chiusi, il respiro lento. Sembrava dormisse. Ma c'era. Scandito dalle boccate lente tirate dalla sigaretta che lei gli aveva acceso.
- Tu sei la prova lampante che siamo stati noi. C'è bisogno che ti nasconda. Per Eir e per la bambina. Fai la cosa giusta e scendi da questa nave. Si occuperanno Geibì e Anya di te. E io mi occuperò della tua infermeria.
Lui aprì gli occhi e ruotò lo sguardo a puntarla, con il filtro mollemente tenuto dalle labbra esangui, screpolate e tremolanti di un respiro sporcato dal dolore che tornava a farsi largo.
- Lo so che non vuoi, ma devo pulire. Quando tornerai rimetterai tutto in disordine, ma ho bisogno di pulire tutta questa merda o non chiuderò occhio e morirò con la colpa in petto.
- Tu non sei normale.
- Mai detto di esserlo, Doc, ma sai che farò un buon lavoro e non lascerò tracce, per cui. Sparati la tua dose, chiudi gli occhi e ti risveglierai al The machine o dove non so, ma al sicuro. E tieni la tua lunghissima appendice nasale fuori dai casini, almeno per un po'.
Lui accennò una risata, lei arcuò le labbra, tendendole in un ghigno. La risata però era soffocata dal fumo, dalla stanchezza, dal dolore, e lei non riuscì del tutto a sorriderne. Non riusciva a non pensare a quella bambina. Alla possibilità che crescesse senza padre e non solo, visto quello che rischiava anche Sterling. Rimasero in silenzio a lungo, Ritter con gli occhi chiusi, a finire la sigaretta, lei a fissare quel dannato ago, cercando di scacciare gli incubi, i pensieri. Doveva pulire. Era quello il suo modo di espiare le proprie colpe. Doveva lavare via ogni traccia, farli tornare immacolati, tutti, e portare il culo via da Greenfield. Grazie a Dio avevano Saito. Si sarebbe occupato dei sistemi di bordo, delle rotte, del diario, oltre che della meccanica e lo scafo.
- Ce la facciamo?
- Dubito.
- Sei un fottuto disfattista, non vuoi mai darmi soddisfazioni. Tieni, fatti.
Gli porse l'Hypospray, le fiale di morfina rimaste. Lo aveva ripulito, le ferite buttavano sangue ma il grosso era stato deterso con cura, attenzione maniacale. Si era rattoppato da solo, in attimi di lucida e asettica freddezza. Era un genio, continuava a ripeterlo nella testa, guardandolo agire con indolente precisione, come se tagliasse una dannata bistecca, senza reale fame, ma con l'eleganza con cui un artista disegna il proprio destino su tela. Un profeta, in fondo a quegli occhi spenti, stanchi, ma ancora vivi. Si voltò. Non guardava, e lui aveva sempre la premura di lasciarle il tempo di non farlo. Sentì il suono, l'ago lo percepì nella testa, sparare la morfina in vena. Poteva sentirla spandere al battito accelerato del suo cuore affaticato, un muscolo stanco che però non poteva permettersi di fermarsi. Lo fasciò, come le aveva spiegato prima di svenire l'ennesima volta. Gli infilò con attenzione una camicia, gli cambiò anche i calzoni e poi gli preparò una borsa, con un cambio. Meccanica. Ripeteva in continuazione una cantilena. Ripulisci l'infermeria, ripulisci la stiva, distruggi le auto. Doveva chiamare Anya, prima dell'alba e farli andare, con il favore del buio e della pioggia. Guardò il c-pad. Aveva poco tempo. Doveva muoversi.
Il sonno era un optional. Chiuse gli occhi, si lavò le mani, ancora e ancora, fino a che il sangue non fosse sparito, anche da sotto le unghie. Trascinò una cassa in infermeria, quelle usate per il trasporto generico. Buttò lì gli asciugamani impregnati di sangue, gli abiti di Ritter, il passamontagna. Se ne sarebbe sbarazzata nello spazio, il resto andava nel Sanderson pit. Poteva funzionare, ma loro dovevano andare. Si voltò, guardò Ritter, guardò Vergil e poi decise. Avrebbe lasciato al Dottore il tempo di assorbire tutto il sangue che poteva e di godersi quello che rimaneva della morfina, ma poi doveva andare. Forse era un azzardo, ma c'era da pulire. Corse su, da Trigger, lasciando ad Anya e J.B. il tempo materiale per stare assieme, scaricare la tensione e poi, andò a rompere le palle a Saito.
- Sveglia. Devi controllare lo scafo. I buchi. Tutto. E poi avrò bisogno di te per pulire la nave. 
- ... 
Il terminale del sordo era in stand by, non riusciva a capirla se parlava troppo in fretta. Così, scandì di nuovo il messaggio e lo lasciò.
Doveva pulire. Dovevano uscirne puliti. Tutti. Anche Ritter, la prova vivente della loro colpevolezza. Il futuro padre.

Aveva paura. Tanta paura. Ma non poteva cadere nel panico, non aveva senso. Non poteva. Il sapore. Il sapore di un pessimo bicchiere di vino, ancora lì, ad annodarle la gola. Odiava il vino, sempre odiato e ora aveva capito anche perchè.

giovedì 6 dicembre 2012

Coming back home...

Erano atterrati da qualche giorno. La prima notte non è stata affatto semplice. Era scesa con tutte le buone intenzioni di affrontare i fantasmi del suo passato. Certo, sapere esattamente le coordinate di dove stavano, ma non riuscire minimamente a discernere qualcosa di familiare attorno a loro le dava una sensazione inquietante di paura. Una paura acida, stillata alla bocca dello stomaco, che saliva ogni qual volta sentiva i Corer parlare o si rendeva conto del perchè li avesse accompagnati su quel pianeta dimenticato da Dio e dagli uomini. 
Era a 15 miglia da casa propria, 17 e mezza dai terreni che una volta erano di Trigger. Lui di scendere non ne aveva voluto sapere. Quando è entrata nella sua cabina, bussando con il tacco per annunciarsi, lui stava chiuso a giocare a solitario.  

- Che vuoi, ragazza? 
- Pensavo volessi scendere, Trig. 
- Pensavi male, Winger.  
- Ma io... 
- Se vuoi affrontare a muso duro la vita, ti conviene farlo sola, wing, non ci sarò sempre a pararti il culo, così come non ci poteva stare Dusty. Fai l'adulto, fai l'uomo, metti il naso fuori di qui da sola. 
- ... se io faccio l'uomo, tu che fai?
- Il fottuto coniglio che deve campare tirando avanti con i propri scheletri nell'armadio. Non uscirò da questa nave, Molly, e in cuor tuo sai che non dovresti farlo nemmeno tu. Non c'è niente lì fuori che ci riguardi, niente. Il passato non torna indietro, sono solo ricordi.
- Io devo vedere.
- Buon per te, allora. Vai. Ma non dire che non ti avevo avvisata. 

Ci rimase abbastanza male, inutile negare la cosa. Male, come un cazzotto in pieno petto. Eppure, troppo testarda ed orgogliosa per capire che in fondo il vecchio aveva ragione, gli voltò le spalle e salì la scaletta fino al camminamento. I passi li sentiva pesanti. C'era voluto tempo per adeguarsi alla presenza dei Corer, ancor più alla missione che stavano intraprendendo per Shijie. 

Ricordava esattamente il giorno in cui decisero che non era più sicuro rimanere.

Jacob aveva radunato i vicini, anche Signora Jackson con le bambine. Aveva detto loro che riteneva ormai il tempo di Shijie scaduto e che dovevano lasciare la regione dello Wu-Xin, le notizie che venivano da fuori non erano incoraggianti e il suo sesto senso - fottuto, secondo il fratello, ma maledettamente in forma, secondo lei all'epoca - gli diceva che c'era da allontanarsi il prima possibile. Le Jackson non vollero sentire ragioni. Era inutile stare a discutere, loro avrebbero atteso i loro uomini a casa. Lei vide Il santo litigare pesantemente con Mary-Ann, fino a vedersi dare del disfattista, del coniglio, dell'unionista, addirittura. L'ultima goccia, che non vide mai perdere la pazienza quell'uomo che si spacciava per suo padre al mondo e invece scoppiare di ira la povera donna con marito e due figli in guerra. Se ne andarono, e per quanto lei volesse fermarle, a quel punto non c'era più niente da fare. Lui le mise una mano sulla spalla, a trattenere l'irruenza, le male parole che stava per riversare addosso alla donna che, nella sua ottica di diciottenne, aveva osato aggredire il proprio padre. Non ci stava, ma lui era implacabile. Le ordinò secco ed insensibile di caricare il resto della roba e gli altri passeggeri: i Cheng, i Dawson e gli Mu. Almeno loro si salvarono. 
Quando, fuori dell'atmosfera e ben lontani da casa, videro gli incrociatori della Marina avanzare lenti ed inesorabili, si resero tutti conto che in fondo il vecchio non aveva avuto torto. Per quanto anche lui stesso aveva ardentemente sperato di non avere la ragione a dargli supporto, almeno in questo caso. Tornare indietro era impensabile. Con tre famiglie a carico, arrivò sul primo pianeta utile per appoggiare gli sfollati, concedere loro di poter mangiare qualcosa che non fossero proteine sintetiche in barrette. Lui volle ripartire, ma lei non poteva andare. <No, Winger, devi stare qui a badare ai passeggeri> <Ma papà!> <No, ragazza, stavolta non c'è "Ma papà" che tenga. E' troppo rischioso.> <Però...> Lo sapeva. Non l'avrebbe mai lasciata salire. Non di sua spontanea volontà. Così fece l'unica cosa che sapeva di poter fare. Mentre Jac chiudeva il portellone, lei si buttò dentro, infilandosi in uno degli anfratti laterali nella stiva, dietro le griglie, dove di norma i contrabbandieri - glielo aveva detto William - buttavano la roba. Stette li, percependo le vibrazioni dello scafo, l'attrito con l'atmosfera e poi quel senso di alleggerimento dovuto alla gravità fittizzia, impostata dai sistemi di sopravvivenza della nave. Solo a quel punto uscì dal nascondiglio e si avviò verso la plancia. Lui si voltò, di scatto, con la pistola in mano, puntandogliela diritta al cuore. <Cristo santissimo, Winger, ti avevo detto di stare a terra! Inverto la rotta!> <NO! Papà, per favore, non voglio rischiare di perdere anche te. Fammi venire. Non mandarmi su quel pianeta, io voglio stare con te!> Lui la guardò. Era provato, maledettamente stanco. Il senso di colpa aveva già cominciato a divorarselo da un po', un pezzetto alla volta, lasciandolo sempre più pallido, sempre più smunto. Un uomo triste, senza più molto nella vita che non una figlia maledettamente ribelle e scapestrata, con un carattere al vetriolo e una bruttissima tendenza a cercarsi i guai. Un fratello in guerra, amici e conoscenti praticamente tutti al fronte, la casa abbandonata con il terrore di non poterla più rivedere e l'incolumità di quell'unica famiglia che non era riuscito a convincere a partire con loro a gravare come una spada di Damocle sulla sua testa. Molly non lo aveva mai visto così abbattuto e per la prima volta in vita sua assaporò il sapore acido della paura vera. Tornare indietro fu inutile. Tutti sanno come andò a finire. E' storia, è polvere, è desolazione.

Adesso però era tornata. Per portare di nuovo la vita sul suo bel pianeta. Non ce la poteva fare, ma doveva. 
In realtà, ci sarebbe anche riuscita non fosse stato per la presenza dei Corer. A loro imputava ogni nervosismo, ogni tremore, ogni fiotto bruciante che saliva dal centro del petto e le oscurava gli occhi, in una patina rossa come il sangue. Era rabbia. Più viva che mai, come non pensava di poterne provare davvero. Ricordava solo di averlo minacciato, il dottorino del Core. Averlo minacciato pesantemente, mentre la sorella al suo fianco cercava di mediare, ma senza riuscire. Troppo ottuso, troppo Core. Per non ucciderlo davvero, si è dovuta allontanare, nel buio, senza sapere dove stava andando ma intimamente sapendolo benissimo.
E poi lui. Una ventata di lucidità. Vergil era lì. La sua voce nel c-pad, il richiamo che non riusciva a scuoterla immediatamente, però aveva fatto breccia. Le mani le facevano male e mano a mano quel dolore si allungava, come una doccia gelata, a portare a galla la consapevolezza di aver pianto. Eppure non sentiva tristezza, aveva ancora troppa collera dentro. Lui aveva corso. Lo aveva visto arrivarle praticamente addosso, piombare nel buio, allarmato, preoccupato. Doveva stare male? Probabilmente sì, ma era troppo confusa per ricordare. Sapeva di aver fatto qualcosa di male, ma cosa? Aveva minacciato un passeggero, è vero. Uno della BS. Ma le scuse non le avrebbe porte a lui, mai. Al massimo alla Khan. La Khan. Lei era la causa di quel viaggio.

- Non avrei dovuto accettare questa missione.
- Hai fatto quello che dovevi, come Capitano. 
- ...
- Dovevo vedere.
- Anch'io.

Chiunque ha uno spettro da affrontare, prima o poi. L'importante è non doverlo fare da soli. Da soli, difficilmente si sopravvive. Il branco è più forte.