lunedì 15 aprile 2013

Scythe Song...



I still remember when I first watched him work the blade
It was down in the Buckney den my questions tumbled and he said
O this is not a thing to learn inside a day
Stand closely by me and I’ll try to show the way

You’ve got to hold it right feel the distance to the ground
Move with a touch so light until its rhythm you have found
Then you’ll know what I know

O wild are the ways we run when at last untethered out we fly
Straight into the burning sun need no direction no not I
But it is not a thing to learn inside a day
Stand closely by me and I’ll try to show the way

You’ve got to hold it right feel the distance to the ground
Move with a touch so light until its rhythm you have found
Then you’ll know what I know



So little dancing girl you want to learn to play a tune
One that your heart can fill to help you shine under the moon
Well it is not a thing to learn inside a day
Stand closely by me and I’ll try to show the way
You’ve got to hold it right feel the distance to the sound
Move with a touch so light until its rhythm you have found

Then you’ll know what I know 

Scythe Song - Dougie MacLean 

sabato 6 aprile 2013

I don’t want your cold iron shackles round’ my leg...

Camminava avanti e indietro, avanti e indietro, senza pace, senza sosta. Addosso la tuta da pilota, le maniche legate attorno ai fianchi, la maglietta a cui tira il colletto, stretto, fastidioso. Trigger stava giocando a solitario sul tavolo della cambusa, il suono delle carte era intervallato dal rumore della gomma delle suole che strideva contro la pavimentazione. Fumo e l'aroma di caffè impregnavano l'aria: si era dimenticata di accendere gli aspiratori e la stiva era chiusa.

- Consumerai il pavimento, Winger, a furia di fare avanti e indietro.
- Mhhhh!

La voce del vecchio era deformata dalla presenza della sigaretta fatta a mano. Il pacchetto di tabacco era lì, sul tavolo accanto alla tazza mezza svuotata di caffè e il posacenere. Alternava occhiate incuriosite tra le carte e la pilota. La barba incolta raschiava appena sotto le dita nodose, ruvide. Di capelli ne aveva ormai pochi, teneva in testa un berrettino di lana, verde scuro. Dietro le lenti degli occhiali sporchi continuava a stare appresso a Molly, mentre lei riprendeva a muoversi, avanti e indietro come un animale in gabbia. Era anche quasi riuscita a sedersi, appoggiato il culo su di una sedia, si è rialzata di scatto subito dopo, senza riuscire a starsene ferma e anzi, grugnendo qualcosa.

- Si può sapere cos'è che ti tormenta?
- Sono preoccupata! Che cavolo, non si vede?
- E io che pensavo ti stessi cimentando in un nuovo sport. Avanti, posa le tue chiappe su questa sedia e parla con il tuo vecchio amico Trig.

L'uomo spinse la sedia verso di lei, facendola stridere pesantemente ed impattare contro le sue ginocchia, costringendola quantomeno a fermarsi. Sbuffò di nuovo, tornando a guardare lui, poi la cambusa e ancora di nuovo l'uomo di Shijie. Prese la sedia per lo schienale, ruotandola si piazzò a sedere a cavalcioni, fronteggiandolo. Lo guardò diritto negli occhi. L'ex browncoat rimase in silenzio, appoggiando le carte, prese un sorso di caffè per poi spegnere la sigaretta. Allargò le braccia, con un cenno l'invitò a chiedere, semplicemente. L'aveva vista crescere, sapeva che aveva qualche rospo da sputare.

- Parlamene.
- Mh?
- Avanti, sai che intendo...

Lo sapeva, fin troppo bene. Lei era determinata a scoprire cosa significasse, ma lui non era così incline a scavare nei suoi ricordi. Aveva passato quattro anni in quel posto di merda. Tre lunghissimi, interminabili anni, sperando di vedere il domani, dove ogni giorno era una sfida contro sé stessi per non crollare e ritrovarsi a pregare la Morte di arrivare in fretta e silenziosa. Strinse le labbra, allungando uno sguardo languido verso il mobile degli alcolici.

- Prendi da bere, ragazza.

Molly non esitò. Le bastava vedere la piega di quelle labbra screpolate tendere irrimediabilmente sulla via del dolore e della tristezza, per convincersi che stava per parlare e che sarebbe stato necessario un po' di lubrificante, perchè la lingua non si inceppasse dove faceva più male. Deglutì, incerta di voler davvero arrivare alla fine, ma sapeva che doveva andare avanti. Never back down. Si alzò. Prese due tumbler e una bottiglia di bourbon, trascinandosi nuovamente seduta. Appoggiò la bottiglia tra loro, la stappò, tirando con i denti sul tappo di sughero. Versò due dita abbondanti per sé, tre per Trigger e gli porse il bicchiere, in modo che si servisse. Lui nel frattempo si era messo comodo. Si era sbottonato la camicia, il bacino scivolato leggermente in avanti contro la sedia. Sul petto spiccavano tre set di piastrine, non dovette nemmeno chiedere di chi fossero. Lei le guardò a lungo, nascose la smorfia di dolore dietro all'orlo del bicchiere, affogando gli occhi nell'ambra in cui bagnò la lingua.

- Vuoi la verità. Non ci sarà zucchero in questa storia, Winger. You know it.
- I know.
- Non c'è modo che io possa rasserenarti con un racconto simile.
- Lo so, Trig, lo so. Ho visto te. Tu mi hai cresciuta. Tu... hai visto cose e io ho bisogno di sapere cosa sarà di mio fratello.
- Se Joe metterà piede a Fargate, sarà per la vita.

***
Nella Serenity Valley infuriava la battaglia. Gli alti gradi rimasti in causa avevano barattato la loro libertà, il loro culo, sulla pelle dei milioni di uomini morti, da ambo le fazioni. Lui era stato recuperato da sole tre ore dal pod di salvataggio, espulso a forza da una nave destinata alla deriva, fatta saltare in aria come una stella ormai estinta. Solo tre ore prima, era nello spazio ad osservare i resti del Brigade pilotato da William Cox galleggiare a zero-g, svuotando i polmoni della rabbia e del senso di impotenza che gli si erano radicati in petto. Venne condotto in una stanza: file e file di cadaveri, di feriti abbandonati a loro stessi, erano stipati in luoghi malsani, privi di aiuto o di conforto, disperati e soli. Pochi erano i dottori in grado di sostenere una vista simile, ma quelli che c'erano non potevano fare altro che tagliare, suturare, estrarre, disinfettare e sperare che la tempra facesse il resto. Il tenente degli indipendentisti che lo aveva prelevato dalla sua stanza lo stava trascinando in fondo ad una fila. Lì, allineati l'uno accanto all'altro giacevano i suoi figli. Carne e sangue. Gli vennero consegnate le piastrine, venne consolato con una pacca sulla spalla. Vedere i loro corpi, mentre attorno medici e infermiere gridavano e richiamavano aiuto con questo o quel ferito, lo scosse terribilmente. Rimase immobile, mentre attorno a lui infuriavano un caos di sangue e dolore. Il silenzio era nella testa, assordante come il male che gli divorò il petto. Cole era stato crivellato, il petto era aperto. Dean era stato vittima di un'esplosione, un'enorme scheggia gli aveva trapassato un polmone. Erano solo dei ragazzi. La rabbia compressa lo vide uscire barcollando. I ranghi vennero sciolti, ma lui non ci sarebbe mai stato. Avrebbe avuto la sua vendetta. Era solo questione di quando. In realtà non ci volle nemmeno molto, gli bastò un mese, per organizzare un attentato. Riuscì a mandarne all'inferno quindici. Ufficiali della Flotta Alleata. Fece saltare un convoglio in aria, con tutto quello che seguiva. Voleva sangue, per il sangue perso. Era divorato dalla rabbia, corroso dall'odio. Lo abbatterono con una raffica di perforanti, uno gli spezzò il femore. A guerra appena finita, non potevano permettere che si venisse a sapere che un solo uomo continuava a combattere. Venne spedito a Fargate con l'accusa di terrorismo: condannato ai lavori forzati.
*** 

- La vita era scandita dal lavoro. Si lavorava fino a che non ti si staccavano le braccia, crollavi riverso in terra, solo allora ti trascinavano nella tua cella: buchi fetidi senza luce, senza mai sentire l'aria fresca sulla pelle. L'odore pregnante di escrementi, la prigionia ed il tormento. I lamenti si sentivano dalle altre celle, rimbalzavano tra le pareti cupe e spesse. Era roccia, ovunque, in ogni dove. Roccia e secondini. Perdi l'identità, perdi il ritmo del tempo che scorre, perdi la speranza, la voglia di vedere il domani. Non esiste nulla di peggio della privazione dei tuoi diritti, Winger. Nulla di peggio di sentire i morsi della fame, della fatica, il gelo delle intemperie eppure non sapere che giorno sia, che stagione sia, soli, maledettamente soli. E' tutto privo di colore, tutto grigio, piatto, immobile. E' lavoro, ed è morte. Lì la gente si uccide, Winger. La disperazione a cui le menti fragili arrivano è tale che passi le nottate a chiederti come farti fuori, invece che ad altro. Quel posto è fatto per spezzarti. Svuotarti della tua anima e lasciarti uscire rotto, in pezzi talmente piccoli che non ricorderai nemmeno più cosa significa vivere. Molti impazzivano. Parlavano con loro stessi, perchè non c'erano altri con cui parlare. E' una cosa che non augurerei nemmeno al mio peggior nemico, ragazza. Uscire di lì con tutte le rotelle apposto non è così semplice. Sono certo che se Joe finirà lì, vorrà che tu lo consideri morto: perchè in fondo sarebbe meglio che lo fosse.

Lo ascoltava. Sentì il freddo entrarle nelle ossa, il dolore battere contro il fondo del cranio. Un bussare sinistro, che mosse il braccio d'abitudine. La mano si infilò nella tasca, prese il flacone e cominciò ad armeggiare, ma Trigger le bloccò il polso.

- Immagina di non poterle più prendere. Immagina di vivere con quella sofferenza costante, anni e anni.
- ...
- Yes, that's it.

Il paragone la fece tremare visibilmente. L'idea di non potersi affidare alle medicine, di dover sopportare il dolore, senza dormire, senza pace. La mano di Trigger la sfiorò. Lei sussultò e trovò i suoi occhi. Lui era un uomo stanco, provato dalle vicissitudini, eppure era sopravvissuto. Non sarebbe mai stato l'uomo che ricordava, felice, con i suoi quattro figli e la moglie sul suo bel pianeta. Quello mai. Non sarebbe mai potuto tornare, ma non era impazzito. Lei gli afferrò la mano. Lo strinse con forza, con gratitudine, perchè in fondo era tornato da lei. Era ancora lì con lei e si bastavano, in parte, nonostante facesse davvero male. Lei per lui era una ferita costantemente aperta, ma era una ferita che gli ricordava esattamente come ci si sentiva ad essere vivi. Le sorrise. Non un sorriso caloroso, qualcosa di spiacente, in realtà. Si scusava, senza troppo impegno, cercando di tirarsela vicina, forzando su quella presa. Lei lo assecondò, senza mettere in campo il suo stupido orgoglio di bambina. L'uomo se la raccolse in grembo, stringendola come faceva suo padre quando era bambina, come lui faceva con le sue figlie. Sospirò e lei comprese che gli mancava tutto quello che aveva perso. Ricambiò l'affetto, stando in silenzio a lungo, lasciando che finalmente ritrovasse quella dimensione in cui si era assestato ormai da tempo.

Non tornarono più sull'argomento. Non ce n'era bisogno. Lei aveva capito. Lui si era richiuso.
Però sapeva che doveva andare dal fratello, fargli sapere che c'era e che ci teneva.



“The Ballad Of John Henry”


Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints

Take this hammer carry it to the Captain , Tell him why i’m gone
Take this hammer carry it to the Captain , Tell him i’m goin’ home

I don’t want your cold iron shackles round’ my leg
I don’t want your cold iron shackles round’ my leg

Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints

I’m a long way from Colorado , A long way from my home
… Get the hammer that killed John Henry , Won’t kill me no more
Gimme the hammer that killed John Henry , Cos it won’t kill me
Gimme the hammer that killed John Henry , Cos it won’t kill me

Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints

Take this hammer carry it to the Captain , Tell him i’m goin’ home
Take this hammer carry it to the Captain , Tell him why i’m gone
I’m a wanted man with the Captain
I’m a wanted man in the shackles
I’m a wanted man in the shackles
I’m a wanted man …..

Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Who killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Ohhhh Ohhhhhhh

I killed John Henry , In the battle of sinners and saints
Ohhhh Ohhhhhhhhh

Richleaf, January 2510

- Dio, è così... caotico.
- Non possiamo lamentarci, Winger, è una casa, è nostra, tanto basta.
- Noi abbiamo una casa, papà...
- ... No more, kid. No more.

Era l'amara verità. Non ce l'avevano più una casa. In realtà non avevano nemmeno più un pianeta. Berta si faceva strada tra la gente, guidando un vecchio cassone con loro caricati dietro e le loro poche cose raccolte in fretta e furia prima che il pianeta venisse raso al suolo dai bombardamenti alleati. Lei aveva un cugino che si era trasferito a vivere su Richleaf, manco a dirlo, era un meccanico. Aveva una piccola officina, roba davvero di poco conto, riparazioni express di ogni genere, in quel di Fidelidad, a Maracay. Lì riuscirono a trovare loro una piccola casa, o meglio, una baracca, proprio accanto un venditore di ferro vecchio. Gli ammortizzatori cigolavano, il moto era ondeggiante, pericolante. Sembrava che la strada stesse per cedere da un momento all'altro. Molly aveva visto Maracay altre volte, ma non si era mai addentrata nella trama fitta di quell'universo incredibilmente intricato che era la città cosmopolita di Richleaf. Da dove veniva lei c'erano miglia tra una casa e l'altra, e anche nel centro urbano più frequentato si respirava aria e non c'era questo costante ammassarsi di vita, nel tentativo di schiacciare quella degli altri. Non le piaceva. Lo aveva deciso dal momento in cui si erano messi in moto, con le loro cose, e si erano mossi di pochissimo in un tempo spropositato. 

- Ci vuole ancora molto, Berta?
- Ci vuole il tempo che ci vuole, Winger.
- Che risposta è?
- Non fare l'indisponente, Molly Cox. E' già un miracolo che Berta sia riuscita a trovarci un alloggio, da quando sei diventata così ingrata?
- ... Scusa.
- Fa nulla Wing, però non ci pensare, non dovremmo essere distanti, o almeno quella è l'insegna del posto di mio cugino.

Con l'indice, Berta puntò una viuzza, le finestre affacciate, i muri accalcati, colori, odori, rumori, tutti compressi in un insopportabile caos senza senso. Molly si sentì soffocare. Dove erano i campi sterminati? Montagne, fiumi. Dove il suo bel paesello, la sua regione, il suo cortile? Le si strinse un nodo in gola. Non riusciva nemmeno a capirli, quelli di lì. Parlavano con un accento strano, la 's' trascinata tra i denti, usavano termini che lei non aveva mai sentito prima. Si affossò nel sedile e calò il cappello sul viso. Sarà anche stato Rim, ma non era di certo Shijie.

- Must we stay here?

Era ormai una domanda frequente che rifilava a quella povera anima di suo padre. L'uomo era invecchiato di anni in pochi mesi. Si era ingrigito tantissimo, le rughe gli avevano scavato infiniti solchi attorno agli occhi, sulla fronte e sulle guance. Sembrava più piccolo e fragile, il fantasma dell'uomo di cui andava molto fiera. E, ancor peggio, si accompagnava perennemente ad una bottiglia di qualcosa. 

- We must. There's no where else we can go.
- But, what if they come home?
- Damn you! They are never commin' home, Molly!

Era la prima volta che Jacob Cox era stato così duro nel rispondere alla figlia. Era sempre stato fermo, determinato, ma mai brusco. L'insistenza con cui Molly continuava a chiedere di tornare a casa lo stava stancando. Il senso di colpa aveva sfilacciato la sua pazienza in maniera irrimediabile. Sbottò, in maniera così inaspettata che lei trasalì di colpo nel sedile, schiacciandosi contro la portiera della macchina nemmeno avesse visto un mostro. Berta stessa fu costretta a fermarsi, distrattasi dalla guida stava per mettere sotto un passante. Erano entrambe interdette, si guardarono. L'espressione della ragazza si indurì, mise la mano sulla maniglia e spalancò la portiera, approfittando dell'attimo in cui il mezzo era bloccato nella folla di passanti per tuffarsi giù al volo e sparire in fretta e furia.

- WINGER, torna qui!
- Lasciala Berta, si darà una calmata.
- Boss, sei stato un po' stronzo con lei.
- Non ti ci mettere anche tu, Berty, non farlo.
- Dahhh, come ti pare, ma vedi di darti una calmata e una ripulita che domani ti porto da uno che può darti un lavoro.

Quel posto non era casa sua. Appena scesa dalla macchina si sentì smarrita. Era tutto fuori fase, tutto sbagliato. I ritmi accelerati, la gente troppo veloce, come la loro parlata. Si infilò in un vicolo, camminò fino a che non trovò un muro a bloccarle la strada e fu costretta a tornare indietro, ancora e ancora, ritrovandosi presto persa in un dedalo dal quale non riusciva davvero a fuggire. Istintivamente si infilò nel posto più familiare che conosceva: un'officina meccanica. Lì vide una faccia che conosceva fin troppo bene: Clifford Djeval e suo padre. Non fu un incontro edificante, ma probabilmente il vecchio Djeval riuscì ad intuire quanto spaventata e sconvolta fosse, così da evitare che ci fossero delle prese in giro da parte di Cliff.

- Toh, Molly Cox.
- Ma... e voi?
- Noi? Tu piuttosto. Questa è la mia officina ragazza. Sicuro tuo padre te l'avrà detto.
- Bhè... no.
- Well... ora lo sai. 
- Ma...
- Cosa?
- Niente. Mi... mi fa piacere rivederla, Mr. Djeval. 
- Mister... ragazza, ti hanno educata davvero bene. So... che ci fai qui, tuo padre è in giro? A caccia di pezzi?
- Noi... ci siamo trasferiti, qui.
- Ah. 
- Già.
- Bhè. Benvenuti a Maracay allora.
- Grazie. Posso...
- Puoi, ma non toccare nulla. Noi torniamo a lavoro.

In fondo era un padre anche lui. Sapeva capire quando taluni richiedevano di stare soli. Ottenuto il permesso si rintanò in una vecchia carcassa di jeep da cui probabilmente avevano preso tutti i pezzi utili come ricambi, lasciando giusto il sedile passeggero e qualche altro elemento. Si chiude la portiera dietro, rannicchiò le ginocchia e se ne stette lì in silenzio fino a che non vibrò il pad al polso. La sorpresa e lo spavento le fecero sbattere la testa contro il tettuccio dell'auto, in un suono netto quanto lo era il dolore che le pulsava nel cranio. Il messaggio chiedeva solo di tornare, per pietà. Si fece spedire le coordinate da Berta e con l'aiuto delle indicazioni dei Djeval, tornò alla sua nuova casa, seppur non la considerò mai tale.
Casa. Se così la si poteva definire altro non era che due locali con un bagno, su due livelli. Sotto c'era una specie di magazzino, che però apparteneva all'officina accanto. Lei scelse di dormire sul divano, lasciando al padre la camera da letto. La cucina era in un angolo, avevano due finestre e una porta. Si sentiva soffocare: faceva caldo, ma almeno c'era tutto il necessario per tirare avanti.

- Sully terrà le vostre cose nel magazzino. Basta che lo avvisiate quando andate di sotto, perchè ci sono i cani.
- Cani?
- Yep, per quello ti dico. Qua la gente tende a sgraffignare, ma non vi preoccupate. Mio cugino ha un ottimo impianto di sicurezza, lo ha costruito con le sue mani.

La cosa non la rassicurava affatto. L'idea di avere cani sotto al culo l'inquietava come non mai, infatti non riuscì a dormire, le prime notti, tormentata dagli incubi e dal rumore che continuava a rimbombare ovunque. Quella metropoli non se ne stava zitta un attimo. L'unico sollievo che ebbe era sopra la casa. Sul tetto c'era uno spiazzetto su cui stendersi e osservare in alto. Non le stelle, perchè non c'erano, non si vedevano da lì giù, troppa illuminazione artificiale, ma almeno poteva mettere altri livelli tra sé ed i cani. L'unica consolazione era rifugiarsi lì sopra, oppure nell'officina, chiudendosi in qualche auto. Non era il suo mondo, lo sapeva. Stare lì non faceva per lei, per cui, mentre il padre prese a fare il trasportatore per una ditta locale, lei si mise a cercare un lavoro proprio, ormai abbastanza grande da badare a sé stessa. Doveva andare via da lì, portare via il padre, liberarlo dal senso di colpa che lo consumava. La prima notte, decise che era tempo di spiccare il volo. La prima notte a Richleaf, la prima di una nuova vita.

Shijie, March - September 2503

Quando si metteva in testa qualcosa era impossibile farle cambiare idea. Davvero. Il padre sapeva che non ci sarebbe stato verso, ma almeno aveva fatto una scelta che poteva appoggiare, per una volta in vita sua. Aveva sedici anni e aveva deciso che non voleva più andare su al monastero a studiare. Sapeva far di conto, leggere, scrivere correttamente, ma le lezioni si erano fatte noiose e lei non faceva altro che combinare guai e finire con lo scontrarsi con gli uomini di chiesa, costringendo spesso uno dei due uomini Cox a salire per venirla a prelevare o dover discutere con la gente per colpa sua. 

- Winger sei sicura di quello che vuoi fare? Guarda che Lee non ha tempo da perdere.
- Sono sicura pà, almeno imparo qualcosa di interessante.
- Se lo dici tu.
- Se non vuoi guarda che basta dirlo eh.
- No, non è questo... fa come preferisci.
- Davvero?
- Yes. 
- Cool!
- ...

L'entusiasmo della giovane donna non lo tranquillizzava, ma la vide sorridere in una maniera che non poteva davvero lasciarlo indifferente, e poi sapeva che così l'avrebbe tenuta lontana da quella testa calda di Jackson, almeno per un po'. Jacob la seguì fino alla sua stanza, dove lei corse, scalza, con i calzoni arrotolati attorno alle ginocchia e la camicia larga in cui navigava goffamente. Stava preparando la valigia. Strano ma vero, in quel momento si rese conto che, per la prima volta nella sua vita, lui e suo fratello, al ritorno dal prossimo viaggio non avrebbero trovato il musetto arruffato di quella bestiola di Molly ad aspettarli. Portò la mano a massaggiarsi gli occhi stanchi, mentre l'ennesima ruga faceva capolino e il cruccio si faceva più marcato, netto.

- Hai preso tutto?
- Yes, sir!
- Mi raccomando, io e tuo zio partiamo per Richleaf, sai quanto ci vuole a tornare, no?
- Yup.
- Non combinare guai mentre non ci siamo, right?
- Right!
- E... Wing...
- Sì, papà?
- Niente. Vieni dai che ti accompagno in paese.
- Ah-ha!

Era solare come da tempo non la vedeva, questa nuova avventura, la possibilità di scegliere per sè, la riempivano d'orgoglio. Una settimana prima Molly si era presentata davanti alla stanza del padre, chiedendo di parlargli. Lui l'aveva fatta accomodare sul suo letto, con la trapunta ad uncinetto fatta dalla nonna. Si era anche pettinata, per cercare di fare una buona impressione. Gli sorrise e cominciò a spiegare che era andata in paese e che aveva pensato, incontrando per l'ennesima volta il loro medico, che magari avrebbe potuto stare con lui e fargli da assistente, per un po'. Lee l'aveva sempre detto che lei, con tutte le volte che si era fatta male o che aveva assistito qualcuno che s'era fatto male, sapeva più cose di un qualsiasi studente di Medicina del Core. La cosa la fece ridere, ma scavò un solco abbastanza profondo da spingerla, dopo un bel po' di progettazione, a fare proprio questa scelta. Glielo aveva chiesto contro il volere dello zio e per una volta Jac fu abbastanza felice di sapere che Molly non andava appresso al parere di Will, con la stessa feroce costanza di sempre. 

- Allora io vado eh?
- Sì, non ti preoccupare, farò la brava perchè se no poi Lee ha detto che mi cuce la bocca.
- Ecco, non sarebbe una brutta idea eh. 
- Papà!
- Scherzavo. Allora... ciao eh.
- Bye!

Lasciarla gli era pesato tanto, ma lei era lì, sul ciglio della strada polverosa che agitava la mano mentre con l'altra reggeva la valigia con le sue cose. Quel dannato sorriso, era una sorta di incantesimo strano, aveva un effetto davvero pazzesco su di lui e non poteva fare a meno di pensare che, a volte, sembrava quasi stregoneria o un angelo.  
Molly guardò il padre partire in jeep lungo la strada polverosa, lasciata davanti lo studio in città del medico del paese. Lee le aveva riservato una stanza al piano superiore, modesta, con una brandina ed il lucernario, in modo che potesse vedere le stelle. Era un uomo estremamente pacato, il dottore. Difficile riuscire in qualche modo a distrarlo da quello che stava facendo, ancor più metterlo in difficoltà. Sorrideva spesso, ma non lo faceva mai con gli occhi. Era velocissimo, una mano tanto ferma da lasciare con il fiato sospeso. Lei passò con lui sei mesi, in cui riuscìn ad imparare come riallineare una frattura scomposta, fasciare una ferita al meglio, riposizionare ossa, tamponare, pulire, addirittura suturare una ferita. Gli fece da assistente per lungo tempo, fino a che una notte non successe qualcosa. Mentre dormiva bussarono alla porta, con tanta violenza da smuoverla dai propri cardini. Non erano bussate di mano, ma pedate vere e proprie. Saltò in piedi con il cuore in gola, prese la lampada e corse scalza giù per le scale, aprendo la porta. Un uomo teneva in braccio una bambina, era completamente cosparso di sangue, polvere e sudore, aveva corso per molto mancava di fiato e di pazienza. La creatura che aveva in braccio avrà avuto sì e no una decina d'anni.

- Dov'è il dottore?
- E' uscito per un'emergenza, la signora Foster sta partorendo.
- Merda! Ci devi pensare te a lei allora.
- Cosa? Ma io non posso... non sono medico
- Ci sai cavare i proiettili no?
- Bhè...
- Sì o no?
- Sì però...
- E allora cavaceli.

L'uomo le buttò praticamente addosso la ragazzina che gemette di dolore. Si teneva la pancia. Lei mollò la lampada che cadde e si ruppe, spegnendo la luce artificiale che emanava blandamente. Arretrò ma, per chissà quale stimolo divino, riuscì a reggere il peso della bambina. Stentando si volse, bianca in viso, trascinando con sè la vittima fino al lettino. Accese tutte le luci, lasciando ditate rosse sugli interruttori. 

- Cos'è successo?
- Non sono affari che ti riguardano, guariscila.
- Devo saperlo se no come faccio a metterle le mani addosso?
- Ci ha preso dei pallettoni, un paio di colpi.
- Un paio?!?
- Insomma, sei un medico o no? Guardala e capisci da te cosa è successo.
- Non sono un medico ti ho detto.
- E' uguale, dalle una sistemata che dobbiamo muoverci.
- La ragazza non va da nessuna parte, almeno per un po', ha perso molto sangue.
- Tu non sei nessuno per dire dove va, io dico che va.

Litigare con l'uomo era inutile. Non lo aveva guardato, aveva occhi solo che per la ragazza che si lamentava costantemente per il bruciore e i dolori al ventre. Prese le forbici, le dita erano viscide di sangue. Cominciò a tagliarle i vestiti di dosso, notando quanto fossero bucherellati. Le levò la camicetta grondante e capì subito che non avrebbe potuto fare molto. 

- Merda...
- Cosa? Cosa?
- Niente.
- Guariscila o ti riempio di piombo mocciosa.
- ...

Adesso sì che volse lo sguardo all'uomo. Aveva un revolver puntato in faccia. Allargò gli occhi. Anche lui aveva una spalla fuori uso, ma non sembrava importargli.

- Faccio il possibile.
- No, tu fai, perchè se lei muore, tu fai la stessa fine.

Sbattè le palpebre, sbiancata per la situazione di merda in cui era capitata. Con le dita tremanti cominciò a ripulire le ferite. Prese gli strumenti, una dose di morfina, che le iniettò nel braccio sottile. Le diede da mordere una fascia di cuoio, mentre cominciava ad estrarre i pallini. Alcuni avevano fatto sprofondare nella carne il tessuto della camicetta e quello era un rischio reale di infezione, più di qualsiasi altra cosa. Il respiro accelerato, l'uomo che lasciava una striscia di sangue sulla parete a mano a mano che scivolava verso il basso, la canna del revolver sempre saldamente puntato verso di lei. Doveva stare attenta, perchè la ragazza era rigida e tremava, probabilmente lo shock. Era piena di buchi, non poteva fare niente eppure doveva continuare a provarci o si trovava lei un proiettile in testa. 

- Quanto ti ci vuole ancora?
- Hai visto quanti cazzo di pallini ha in corpo? Ci vuole il tempo che ci vuole, merda.
- Cosa?
- Niente.
- Cazzo smettila di dire niente!
- E' spacciata, va bene? CHE CAZZO TI DEVO DIRE??? 

C'era troppo sangue. Per quanto provasse a tamponare, c'erano troppi buchi, la ragazzina era un dannato colabrodo e ogni volta che cavava un pallino dalle sue carni trovava un altro buco in cui andare a cercare. Ci vedeva praticamente doppio, sudava freddo e la ragazza continuava a non reagire come avrebbe dovuto. Sapeva che le stava scivolando la vita tra le dita e non aveva modo di fare nulla. Strinse i denti, tremante, provando ogni cosa, cercando di respirare di non lasciarsi andare. Il tanfo del sangue rappreso tra le dita, nonostante continuasse a sciacquare gli strumenti, ce n'era ovunque e sentiva anche il marciume dell'infezione cominciare ad intaccarne le carni. 

- Ha bisogno di un ospedale, non posso fare niente in queste condizioni.
- Non ce la porto in un fottuto ospedale dove fanno troppe domande, tu adesso risolvi.
- Non sono dio, porca puttana, non risolvo le cose schioccando le dita e non sono nemmeno un cazzo di medico!
- Tu hai detto di esserlo. Io ti sparo, cazzo, TI SPARO HAI CAPITO?!?
- Non è vero, tu hai detto che lo ero e non hai voluto sentire rag-

Si interruppe di colpo, la ragazzina aveva sgranato gli occhi e l'aveva afferrata. Ci fu un rumore netto di vetri infranti e si voltò verso la finestra ed era a pezzi, sul pavimento, pensò fosse stato lo sparo, ma non c'era stato nessuno sparo. Si volse di nuovo all'uomo che le puntava la pistola in faccia e non lo vide, o meglio, lo vide crollare a terra. Non capì subito cosa fosse accaduto, ma poi, nei riflessi della luce, vide barluginare una quarantina di aghi conficcati nella carne del poveraccio. La ragazzina sussultò e poi crollò di nuovo. Si sentì mancare, vide il volto di quello che fino a poco prima l'aveva tenuta sotto tiro bucherellato da sottilissimi aghi da agopuntura, anche negli occhi. L'immagine raccapricciante vista la piega che avevano preso i muscoli, tesi dai nervi sollecitati in maniera micidiale dalla pressione di quegli aghi. Sentì le gambe venire meno, ma non impattò con il pavimento. Lee era alle sue spalle, agguantata saldamente la fece sedere sulla sedia a dondolo che teneva in un angolo, come un complemento d'arredo più che di reale utilità. La camicia da notte era completamente lordata dal sangue, ma non le interessava. Il dottore si mise subito all'opera sulla piccola Amy, ma nulla valse il suo intervento. La bambina spirò dopo alcune ore. Aveva perso troppo sangue, era in stato di shock e le lacerazioni causate dai pallini di piombo erano troppo gravi perchè qualcuno potesse fare qualcosa. Pulendosi le mani nel catino, il dottore si avvicinò a Molly, i cuoi occhi erano ancora inchiodati sul viso dell'uomo, visibilmente morto. 

- Hai fatto il possibile, Winger, non ti dare peso, vai a farti la doccia adesso.
- E'... 
- Morto? Sì.
- Ma...
- Cosa?
- Tu, insomma, come...?
- Ho semplicemente valutato che tu fossi più importante di lui, tutto qui. A volte bisogna fare delle scelte.
- Ma quegli aghi...
- Lo so, non è una bella scena, ma con una doccia bollente e un buon sonno, vedrai che passerà tutto.

Non fu così. Levarsi dalla testa l'immagine di un ago che uccideva una persona non era così facile come cosa. E va bene che non era stato uno solo, ma almeno una trentina, per almeno due settimane continuò a ricordare quella faccia, orribilmente contratta e le punte di quegli aghi sprofondate nel vitreo molle degli occhi sgranati, una scena così disgustosa che ancora le faceva salire il vomito. Rimase per altre quattro settimane, ma poi non ce la fece più. Dovette tornare a casa, cambiare aria e fingere di dimenticare, tenendosi addosso quella repulsione insostenibile per tutto ciò che riguardava gli aghi, camuffando il terrore di quella notte in una paura immotivata ed infantile, come tante altre.

Shijie, September 2501

Qualcosa sbatteva contro la finestra della sua camera. Ritmico, regolare, scandito di tanto in tanto da un leggerissimo fischio, abbastanza fastidioso da penetrare nella coltre morbida dei sogni. Era notte fonda, la luna piena. Aveva quattordici anni e un sacco di sonno sulle spalle. Si alzò, addosso quella stupida camicia da notte di flanella, perchè se no prendeva freddo, dicevano loro. A lei faceva cagare. Non capiva perchè non poteva dormire come loro. In piedi, accanto al letto, si guardava attorno. Il rintocco contro il vetro. Le ombre erano lunghe, la luce della luna penetrava debolmente dal vetro spesso. Il pavimento era dannatamente freddo. Spostò i passi, ciondolando, fino a raggiungere la finestra. Vi si appoggiò, tirandola stancamente verso l'alto. Era a ghigliottina e si assicurò di bloccarla per bene prima di sporgersi, o rischiava di tagliarsi la testa nella maniera più stupida.

- Psssst. Wing!
- Mh?
- Ehi! Wing, sono io. Scendi.
- Al diavolo Cole, sai che ore sono?
- Su, non fare la cagasotto, Wing. Scendi, ho la moto.

Cole Jackson era una ragazzo decisamente poco incline alle regole. Per colpa sua era stata messa in castigo ormai non ricordava più quante volte, mentre lui la passava sempre liscia. Si era ripromessa mille volte di non avere più a che fare con lui, ma puntualmente se lo ritrovava sotto la finestra, di notte, con le sue maledette proposte allettanti. In fondo, si ha quattordici anni una volta sola, no?

- Mi vesto.
- Muoviti! Ehi.
- Cosa?
- Belle le treccine.
- 'fanculo!
- E' questo che ti insegnano dai preti.
- Mpf! Smettila di farmi perdere tempo.
- E tu smettila di starmi appresso.

Erano battibecchi simili a convincere Mary-Ann Jackson che quei ragazzi erano fatti l'uno per l'altra. Molly scappò dentro, infilando la testa nell'armadio nè estrasse i pantaloni e la camicia. Si infilò tutto seduta sul pavimento, attenta a non fare troppo casino. Rubò gli stivali e se li caricò in una sacca a tracolla, per evitare di svegliare tutta casa con il rintoccare dei tacchi sulle assi di legno. Slanciò una gamba fuori dalla finestra, posando i piedi scalzi sul tetto sotto. Il portico copriva l'ingresso della casa, dodici passi a sinistra e c'era la grondaia. Da lì era semplice scendere e poi gli ultimi metri l'aiutava sempre lui, afferrando la sacca con gli stivali, fino a che lei non atterrava di nuovo, piedi uniti, sul terreno umido della notte. La moto non era ovviamente nei paraggi. Dovevano correre per almeno un miglio, prima di potersi ritenere davvero al sicuro. Era sempre una corsa perdifiato, con lui che incitava costantemente a muoversi, a non fare la pelandrona.
Notte fonda, le corse spericolate tra le valli e i campi, fino ai fiumi, in cui tuffarsi o essere spinti, in cui giocare, scherzare, nuotare e finire per trovarsi vicini e tremanti, con quei pochi vestiti addosso e gli ormoni decisamente a mille.
Aveva sempre uno strano sapore, ma non era cattivo. Per quanto sapesse che, una volta fuori di lì, le avrebbe prese di santa ragione e sarebbe finita di nuovo confinata, non poteva resistere. 

- Che farai?
- Che intendi?
- Quando lo scopriranno.
- Quello che faccio sempre.
- Incassa e taci?
- Sì.
- Perchè? In fondo non facciamo niente di male.
- Perchè è mio padre, Cole.
- E allora? Non sarai la sua bambina per sempre, prima o poi dovrà mettersi l'animo in pace.
- Tu non gli piaci.
- Lo so, per questo è divertente.
- Non capisci. 
- Lo so Winger, lo so. Voi siete uniti. Ha solo te. E' la solita vecchia storia ma a me non ci pensi?
- A te? Hai Demi, e Ronda, e Dean. 
- Ma... loro sono i miei fratelli, Winger!
- Non ti seguo.
- Io parlo di una donna.
- AHAHAHHAHAHAHAHAHA!
- Ridi?
- Ma dai. Hai sedici anni, che ti frega di avere una donna? Non dovresti pensare a diventare un uomo, prima?
- E' quello che voglio.
- ...
- Winger, facciamolo.
- E' uno scherzo? Se è uno scherzo guarda che non è affatto...

Non era uno scherzo. Cole era dannatamente serio e lei. Bhè, lei si ritrovò ad essere in un grosso, grossissimo guaio. Però, a pensarci bene. Era un guaio decisamente piacevole, almeno a tratti. Altri era doloroso però tutto si placava quando quell'idiota di un Jackson finiva per bisbigliarle quella piccola parola di tre lettere che le faceva palpitare il cuore. Un'ammissione di colpevolezza.

Shijie, May 2494

- Winger, vieni un attimo.

La voce di Jacob era bassa, ferma e ruvida, talmente tanto da non lasciare davvero spazio a lamentele di sorta o qualsivoglia genere di rimostranza. Aveva sette anni, Molly Cox, quando il padre la chiamò in disparte. Non aveva voglia di raggiungerlo, se ne stava con lo zio a girare in cortile con la nuova outback, imparando come gestire la frizione e il gas su di una moto. L'aveva già fatto spesso, con William, ma la cosa la divertiva sempre, anche perchè doveva occuparsi lo zio del resto, lei con i piedi non ci arrivava ancora. Secca, vestita i una salopette di tessuto marrone e una magliettina gialla aveva le treccine e un sorriso sdentato.
Will, fermata la moto, afferrò la nipote sotto le ascelle e la scaricò come un sacco di patate a terra

- Va' da lui, Wing.
- Ma!
- Vai!
- Mpf…

Testa bassa e il broncio, Molly rientrò in casa per farsi strigliare dal padre. Il tono era sempre lo stesso, che dovesse darle uno scappellotto o una carezza, per così dire, perchè in fondo Jacob Cox non era mai stato un uomo affettuoso, il massimo per lui era una scompigliata dei capelli castani su quella testolina bizzarra. Entrata lo aveva cercato, dopo aver superato il piccolo portico e raggiunto il disimpegno all'ingresso, sinistra, destra, nessuna traccia. Con il broncio e un minimo di confusione lo chiamò:

- Papà?
- Qui.

Era in camera sua. Lei non poteva entrare in camera del padre, mentre aveva libero accesso - per sua scelta s'intende - in quella dello zio. Era strano davvero che la facesse entrare, ma non se lo fece ripetere due volte. Il sorriso sdentato e le trecce saltellanti furono l'espressione fresca e gioviale che il padre le vide stampata addosso quando entro la porta. Lui era seduto sul suo letto, la fissava, invitandola poi a sedere ai piedi. Lei, aggraziata come un piccolo minotauro, finì per lanciarsi letteralmente sul letto le cui molle cigolarono pesantemente. Jacob sollevò gli occhi chiari al soffitto, cercando di recuperare la pazienza rinomata di cui andava eccessivamente fiero. Allungò la mano e prese per la collottola la ragazzina, piazzandola seduta davanti a lui, serio, dannatamente serio, così che lei non potè più fingere di non sentire quegli occhi pesarle addosso.

- Winger, ricordi quando, tempo fa, mi chiedesti di tua madre?
- Ah-ha
- Ecco… cosa ti dissi allora?
- Che era una brava donna, timorata di dio, una buona donna e che io dovevo essere come lei, perchè?
- Tu sai che io non sono mai stato sposato, vero?
- Ah-ha. Il reverendo McAllister dice che io sono figlia del peccato, ma a me non pare tanto un peccato poter girare sulle moto e stare con voi.
- Mh. McAllister dovrebbe cucirsi quella bocca e farsi gli affari suoi - era la voce fuori campo di Will
- Anche tu Will, fatti i fatti tuoi sto parlando con la bambina!
- Sono fatti miei, è mia nipote!

Lei era confusa, guardava il padre e più i due discutevano più lei non capiva:

- Papà ho fatto qualcosa che non andava? Ti giuro che non sono stata io ad ammaccare il portellone di carico!
- No, Molly, non è quello il problema. 

Lei allargò lo sguardo. Il padre non la chiamava MAI per nome e la cosa le fece abbastanza specie. Anche Will dall'altra stanza si zittì immantinente. Lei rimase con la boccuccia socchiusa e gli occhi chiari puntati su quello che aveva sempre creduto essere il padre, tanto più che le continuavano a ripetere che da lui aveva preso la mascella, ma che da William aveva preso il caratteraccio.

- Piccola, la verità è che nè io, nè Will siamo tuoi parenti.
- Ah?
- Sai dove sei nata?
- Ahm.. qui?
- No. Sei nata su Tauron.
- Ah…
- Lo so, sembra strano, ma la storia è questa: Avevamo un carico di bestiame da trasferire tra Bullfinch e Tauron. Will era impegnato altrove così io me ne occupai. Arrivato su Tauron, mentre scaricavo nel terreno di un bovaro del posto sentii dei rumori in fondo alla stiva. Avevo inavvertitamente imbarcato un clandestino. In realtà erano due, perchè c'eri anche tu, in pancia a tua madre.

Lei rimase in silenzio. L'uomo non sapeva davvero da che parte prendere la situazione per cui la snocciolò con la sua solita implacabile calma, tanto solida da dar fastidio spesso e volentieri anche al suo unico fratello.

- Tua madre stava male, molto male e tu stavi uscendo. Era sola, in mezzo alla merda di vacca e alla paglia, non aveva un IdN, non aveva soldi nè bagagli, solo una medaglietta con una foto e un nome, maschile. Riuscì a darle una mano, per quanto possibile, ma quando tu cominciasti a strillare, lei smise di respirare. Non c'erano medici, non avevamo tempo di fare nulla, eravamo in ritardo e se non tornavamo in orario non ci avrebbero pagato il trasporto e tu sai benissimo quanto quella maledetta bagnarola ha sempre bisogno di un pezzo di ricambio o una controllata, rischiavamo di rimanere a spasso nello spazio.

Le giustificazioni si susseguirono a lungo, le porse anche la medaglietta, che lei rigirò tra le dita. Era un'effige sacra, di un qualche santo che lei non sapeva distinguere, tutti uguali.

- Non è riuscita nemmeno a dirmi il suo nome, nè a dartene uno. Io, sono sincero, non pensavo saresti sopravvissuta ma lasciarti lì non sarebbe stato cristiano, lo capisci? Ti ho portata a casa, ti abbiamo allevata come se fossi figlia nostra ma la verità è che non lo sei.
- Ma… e la storia del mento, del carattere?
- Coincidenze, piccola.
- Perchè mi state dicendo questa cosa?
- Perchè magari un giorno vorrai sapere chi sono davvero i tuoi genitori e purtroppo nè io nè William potremmo mai rispondere a questa domanda, solo Dio lo sa.
- E Dio non risponde?
- No Wing - irruppe William, una volta raggiunta la porta - Dio non ti risponde, rinunciaci ragazza. Adesso vieni, dobbiamo preparare la nave che tra non molto partiamo.
- Dove andiamo?
- New Melbourne, così vedi il mare.
- Davvero?
- Davvero.

Jacob rimase in silenzio, guardando William che si portava via Molly, per nulla interessata alla storia della propria vita. E come poteva. Sette anni, solo sette e tutto l'affetto che conosceva lo viveva riflesso in quei due uomini che l'avevano raccolta da terra. Dovettero passare qualcosa come dieci giorni prima che la ragazzina tornasse a cercare il padre. Era sul portico, a dondolarsi sulla sedia con il fedele fucile accanto. Lei uscì, finito di pulire i piatti e rimase sulla porta a sbirciarlo, con quei codini e quegli occhioni straniti.

- Che cosa c'è, Winger?
- Posso ancora chiamarti 'papà', anche se non lo sei?
- …

Rimase in silenzio, voltando il viso a guardarla sotto la tesa del cappello da cowboy. Un grande respiro, la mano ruvida battè sulla coscia:

- Vieni ragazzina, prendi le mappe che le guardiamo assieme.

Lei sorrise, ampia, grata, correndo di nuovo in casa a raccattare le carte e tutto quello che le serviva per disegnare rotte nello spazio, il passatempo che riempiva le serate torride d'estate, in braccio al padre o sdraiata a pancia sotto sul portico, sgambettando e finendo per imparare, giorno dopo giorno, come essere un bravo pilota.

People are strange...

William Cox, detto Dusty




- Giù dalla branda, soldato!

Aveva sempre avuto il maledetto vizio di urlare. Nessuno riusciva a toglierglielo, nemmeno sua madre, in tanti e tanti anni di cristiana, pacata perseveranza. La svegliava così, tutte le mattine, facendola volare dal letto e atterrare di culo sul pavimento di legno della sua stanzetta. E se la rideva, caricandosi uno scricciolo via via sempre più grande sulla spalla, con la grazia di un sacco di patate e tante, tantissime lamentele. William era uno facile ad alterarsi, un carattere decisamente poco incline ad accettare le sconfitte, o i torti. Aveva ragione lui e non voleva sentirne di altre, ma era un brav'uomo. Aveva due anni in meno di suo fratello ed era pilota, altrettanto bravo, seppur decisamente più spericolato. Aveva gli occhi chiari, i capelli erano di un castano polveroso, riflesso di biondo. Portava la barba lunga e grandi lunghi baffi vaporosi, per sembrare più minaccioso, diceva. Però di minaccioso non aveva nulla quando stava con la nipote. Lui le aveva insegnato tutto, specie quello che il padre non voleva sapesse. Le aveva insegnato a sparare, come prendere la mira, a passare estremamente vicina alle montagne o agli alberi, quando pilotava. Le aveva insegnato a percepire la nave, in ogni piccola vibrazione. Lui era il sole, delle giornate buie. Una risata guaiata, un sorriso sghembo ma pulito e la dedizione di un uomo, forse con le sbagliate convinzioni, ma ligio a sè stesso. 

Poi un giorno, arrivò la chiamata. Le mani callose e ruvide sulle spalle di una diciottenne magra e in piena fioritura, come donna. Le sorrideva, se la guardava, come se dovesse imprimersi nel fondo della retina l'immagine di quegli occhi verdi, allungati, di quelle trecce e di quel muso triste. 

- Fai un sorriso al tuo vecchio zio, dai.
- Se poi non torni?
- Potrei mai lasciarti?
- Sì.
- Non volontariamente, Winger. Se la guerra dovesse separarci, sappi che ti verrò a cercare, in qualunque angolo del 'Verse tu vada a finire. E abbi cura di lui, per me.
- Fate la pace, prima che parti.
- Sai che è cocciuto, non mi darà mai ascolto, ma io ho bisogno di fare questa cosa, per permettere a te... e a Cole, di avere un futuro sereno, o la possibilità quantomeno di provare a costruirvelo, senza che qualche sporco Corer vi rubi la terra o vi imponga com'è giusto vivere, secondo loro. 

Era bravo a farla imbarazzare. Senza che lei aprisse bocca, lui sapeva esattamente cosa aveva combinato, sempre e comunque. Erano infinitamente simili, non c'era sangue ad unirli ma erano dannatamente uguali e l'affetto e la devozione che li legava era dei più sinceri e profondi che una persona possa mai conoscere. Non era sua nipote, ma l'amava più di qualunque altra cosa al mondo, accettando anche quella testa di cazzo di Cole, purchè fosse felice. Se la strinse fino a rubarle il fiato, stentando a lasciarla anche quando lei accennava a dirgli che le stava facendo male. Lui aveva la coscienza di capire che sarebbe potuto non tornare indietro.

- Ah, zio.
- Dimmi Winger?
- Avrai cura anche di Cole mentre sei lì?

Rabbrividì. Non trovava il coraggio di promettere una cosa simile, così come non aveva avuto il coraggio, i giorni prima mentre lei si disperava, di giurarle che sarebbe tornato. Si voltò, si staccò. Fece due passi indietro e un gran respiro.

- Convincilo a non partire, ragazza mia.
- Non posso, suo padre... insomma, non posso. Lui e il fratello sono partiti questa mattina all'alba.

Era vero, Cole Jackson non era il ragazzo migliore che si era prospettato per sua nipote, ma dannazione aveva solo vent'anni. Poteva la guerra portarsi via un ragazzino? A quanto pare sì, e cosa peggiore, Dean, il fratello minore, aveva la stessa età di Molly

- Winger io...

Non fece in tempo a parlare. Non fece in tempo ad aggiungere altro che arrivò la jeep per portarlo via. Lo chiamarono, due volte. Cooter era sul mezzo che continuava a borbottare di muoversi, di non perdere altro tempo, che avevano una guerra da combattere e vincere. Lui, messo sotto pressione dalla presenza dei vecchi compari, allungò una carezza al viso della nipote, le sorrise, rassicurante come sempre e voltò le spalle. Quello che aveva da dire glielo aveva detto, ogni giorno della sua vita, da quando lei ci era entrata, prima ancora che lei imparasse a capire o a parlare. Non avevano bisogno di parole, non loro due.            

***

Jacob Cox, detto The Saint




Si dondolava sulla sedia, sotto il portico della casa paterna. Accanto la madre sferruzzava, aveva i capelli raccolti in una crocchia rigida, striati di grigio e chiazzati di bianco. Le mani erano raggrinzite e artritiche, avanti con gli anni, continuava comunque a badare ai due figli maschi, sua disperazione. 

- Il signore agisce in modi davvero strani. Ho sempre voluto un nipote, ma voi eravate ormai decisi a non soddisfare le pretese della vostra povera vecchia madre, e invece. 
- Mà, non è stato il signore a mandarci quella palla, è stata la sfiga.
- Non essere sciocco figliolo, un bambino è sempre una benedizione e tu hai fatto la cosa giusta, Jacob, smettila di tormentarti inutilmente. Quella bambina starà bene, con voi. 
- Siamo sempre via, Mà, e non mi pare il caso che tu debba occuparti di una poppante appena nata. E poi è un casino, adottarla e tutto, troppe scartoffie e io non ho il tempo, oltre a non avere idea del chi siano i suoi e da dove vengano.
- Sono certa che saprai fare del tuo meglio, Figliolo, e non ha importanza chi fossero i suoi, ormai è una Cox e...

Molly Cox venne interrotta dal pianto a dirotto della bambina, oltre che dalle bestemmie di William che non riusciva davvero a farla smettere. Sorrise, tremolante e piccola, rinsecchita. Scostò i ferri e si alzò, coadiuvata dal bastone e dalle premure del figlio maggiore, che si era preso incarico di badare a lei da quando il padre era venuto a mancare, otto anni prima. Appena la vecchina entrò in casa, la piccola smise di strillare. Aveva solo fame, bisogno di attenzioni. Jacob era provato, mortalmente, combattuto tra l'aver fatto la cosa giusta e il peso della responsabilità di una simile scelta. Era sempre stato un uomo buono, rigido, severo, ma onesto, fino al midollo. Aveva rifiutato la possibilità di contrabbandare, che gli avrebbe portato un guadagno più ingente, la possibilità di acquistare una nave propria, di nuovo, ma non poteva venir meno agli insegnamenti del padre. Quando trovò la piccola aveva 32 anni. Era un uomo maturo, che aveva amato una sola volta e che aveva deciso di rimanere fedele a quell'unico amore che la malattia si era portato via, in un giorno di primavera. I capelli neri, la mascella volitiva, gli occhi azzurri come quelli del fratello, eredità del padre, come i tratti duri e la barba incolta che si lasciava crescere per dargli un aspetto trasandato e smunto. Non sorrideva mai, le labbra erano sempre tese in una linea netta, rigorosa e seria. L'opposto di suo fratello, lo Yin dello Yang. Parlava poco e quando lo faceva aveva la pazienza infinita di ascoltare ogni lamentela, ogni ragione, senza mai scendere dalle proprie o arretrare. Lo chiamavano il Santo per la sua propensione alla religione ma non solo. La sua pazienza, la sua impassibilità erano storiche. Nessuno, nemmeno il fratello scapestrato, riusciva in alcuna maniera a scalfire la corazza di serietà che si era costruito attorno, eppure manteneva sempre un approccio educato, un modo di fare compito e pio. Xiu Lin, la donna della sua vita, la moglie che non riuscì mai a sposare era l'unica in grado di dargli il sorriso, e allo stesso tempo di far crollare il siparietto di Santo, in virtù di quella dell'uomo, semplice, debole, vinto. Non aveva avuto nessun'alta ragazza nella sua vita e adesso, si ritrovava un frugoletto tra le mani senza sapere che pesci prendere. William uscì dalla casa, borbottando qualcosa riguardo i polmoni e la bocca larga di quella bambina. 

- Non ci sai fare fratello.
- Perchè, tu sì? E' carina solo quando dorme. Secondo te possiamo addestrarla come con i cani?
- Non è un animaletto da compagnia, Will, è una bambina. 
- Non le hai ancora dato un nome. Io pensavo a qualcosa di figo, tipo Vento selvaggio o Cavallo pazzo.
- Solo tu puoi uscirtene con una cosa simile, immagina che vita passerebbe, con un nome del genere.
- Bhè, visto che sei tanto bravo, dinne uno tu.
- Pensavo a Winger. 
- Che cazzo di nome è? A questo punto dagli quello di Mà e facciamola contenta.
- Mh. (ci stava pensando) Non è male. Molly Cox. 
- Quindi abbiamo deciso di adottarla?
- Sì. 
- Va bene, se sei convinto.
- Sì. 
- Guarda che io non le cambio i pannolini, eh!
- Lo farai eccome. Ad ognuno il suo. Ci siamo dentro entrambi, però... mi prenderò io carico di lei, stai tranquillo. Potrai fare lo zio.
- Ci mancherebbe altro, Cristo santissimo, non augurerei a nessuna bestiola di avermi come padre e mi guardo bene dal cascarci.
- Non cambierai mai.
- Grazie al cazzo, non voglio cambiare. Mà! Quanto manca alla cena?

William si alzò, rientrando in casa per dare una mano alla propria madre, come facevano da ragazzi, dopo aver caricato il Wyoming del padre. Il Freedom cry. Avrebbe voluto tanto che non glielo portassero via, ma i soldi erano quelli che erano, i debiti troppo alti e la nave troppo costosa. Era riuscito a ripagare tutto, un dollaro e un peso alla volta, fino a mettere da parte quanto bastava per comprare una nave, ma adesso aveva una bambina a cui pensare e la loro Destiny avrebbe aspettato, almeno qualche anno ancora. Molly Cox portò la bambina, pulita e nutrita, a quello che sarebbe stato il suo papà, da allora fino alla fine dei suoi giorni. La pose tra le braccia di un Jacob completamente impedito, ma rapito, da quegli occhioni dal colore indefinito ma chiaro, che lo puntavano senza vederlo. Troppo piccola davvero. Fragile, tanto che avrebbe potuto recidere il filo della sua vita con una semplicità inquietante, e invece, aveva ormai deciso che l'avrebbe fatta vivere, crescere e resa felice, in un modo o nell'altro, per quanto lui potesse concedere quel genere di emozioni, raggrinzite nel suo petto che aveva ripreso a battere dopo tanto tempo per una donna, o meglio, una miniatura di donna.


*** 


Cooter Jackson, detto Trigger


Stava osservando il figlio smontare il carburatore della moto. Il cipiglio severo smorzato da un sorriso blando e in parte fiero. Dean era un piccolo portento con i motori, un talento naturale che non si fece mai scrupolo di cogliere. Quella moto l'avevano comprata da un robivecchi a Richleaf, andava completamente revisionata e sicuramente necessitava di pezzi di ricambio ma gli sembrava il regalo migliore per il dodicesimo compleanno del secondogenito.

- Pà, passami il cacciavite a stella dai.
- Quale cazzo è? 
- Fa niente, ci penso io.

Dean si spostò, impossessandosi del cacciavite che gli serviva per aprire il pezzo e constatarne le condizioni. Cole comparse alle sue spalle. Un sorriso da schiaffi, fischiettando mentre cercava di svicolare dagli occhi attenti del padre. Ne aveva combinata un'altra, sicuramente. Cooter Jackson sapeva perfettamente leggere i suoi figli, dal maggiore, una sacrosanta testa di cazzo, alla più piccola, uno scricciolino biondo con le treccine e le lentiggini. Ne aveva quattro, il maggiore aveva appena fatto quattordici anni e credeva di aver capito tutto dalla vita, con la sua passione sfegatata per il volo e le armi, il secondo, il futuro meccanico, dodici anni di incredibile dolcezza, un carattere un po' introverso ma familiare e modesto. La terza figlia che Mary Ann Jackson gli diede nacque in una notte turbolenta, e sì, aveva lo stesso carattere di merda di un temporale elettromagnetico. Pretenziosa, fastidiosamente saccente, aveva deciso che sarebbe stata medico. La piccina, Demi, era una creaturina selvatica ma estremamente dolce, un carattere mite, anche se, quando decideva una cosa, nemmeno una carica di bisonti poteva farle cambiare idea. Erano tutti diversi, completamente, ma in un certo qual modo, riassumevano ogni aspetto dei genitori. 

- Swift, dove stai andando?
- Da nessuna parte, Pà.
- Non starai andando dai Cox, lo sai che Winger non può giocare con te, è in castigo, a causa tua.
- Ma no, non ci vado e comunque non è stata colpa mia, ha insistito lei per farci quel giro a cavallo, che colpa ne ho io se è caduta e si è slogata la spalla?
- Sei un coglione. Sei più grande di lei, avresti dovuto dissuaderla o quantomeno proteggerla.
- Maaaa Pààààà!
- Tu guarda se a me toccava un figlio pirla. Te lo ripeto, non andrai da lei.
- Ma è sola! Si annoia.
- Starà meglio lontana da te visto in quanti guai siete capaci di infilarvi, voi due. Altrimenti porta con te le tue sorelle, almeno le faranno un po' di compagnia.
- Ma porc... checcazzo Pà!
- Linguaggio!

Non c'era speranza. Cooter lanciò in faccia al figlio una pezza sporca di grasso da motore e lui reagì con un bullone. E fu guerra. Facevano sempre così. In fondo, era un uomo decisamente a modo. Aggressivo con chi non conosceva ma un amico leale e fedele. Era un buon marito, anche se a volte alzava un po' troppo il gomito. Era un buon padre, severo e con la sculacciata facile ma in fondo i suoi figli erano cresciuti sani e forti. Un anno in meno di Jacob Cox, amici di lunga data ma più vicino a William per carattere. Quando arrivò la guerra non ci pensò due volte. Salutò la moglie, abbracciò le figlie e si incamminò con il sangue del suo sangue, ad affrontare una guerra da cui non sarebbe più tornato l'uomo di prima.



***

Cole Jackson, detto Swift


- Insomma la vuoi piantare? Mi fai male! 
- E te lo meriti, Cole Jackson, sei un demente, guarda che hai fatto!
- Demente io? Sei stata tu a cominciare, Cox!
- Vaffanculo, Swift!
- Vacci tu!

Litigavano sempre, da quando aveva memoria. Erano praticamente cresciuti assieme, nonostante Cole fosse nato due anni prima. Era il secondo in comando della compagnia, il terzo in ordine di età, ma Yin Chen non era all'altezza dei guai che sapeva combinare lui, suo fratello Lou era abbastanza grosso da avere la meglio su di lui, altrimenti sarebbe stato il capobanda. I gemelli Chen avevano un paio d'anni in più di Cole, abitavano le terre tra i Jackson e i Cox. Molly era coetanea di Dean ma andavano tutti a scuola al monastero. Erano un bel gruppo, tra i figli dei Chen e dei Wong, si incontravano spesso lungo il fiume Yin-Sè, a giocare e progettare scherzi. Quel giorno però lo scherzo finì male, prevalentemente per colpa di Cole. Aveva proposto una sfida, e tutti avevano accettato. Con i carretti, buttarsi giù dalla collina e vedere chi arrivava per primo. Ognuno aveva 'preso in prestito' il suo da casa, anche se i Chen usavano uno in due. Gli altri partirono, la sfida fu entusiasmante, divertente, ma Cole non sapeva davvero fermarsi. Se ne uscì con un'idea ancora più pazza: vinceva chi arrivava più vicino alla sponda del fiume che cadeva a strapiombo sotto, sulle rapide. Un'idiota fatto e finito. Molti si ritirarono ma lui no. Problema era che lui aveva bisogno di sfidare, non poteva farlo da solo, così cercò con tutte le sue forze di provocare Molly, quella più facile su cui far leva, in virtù del caratteraccio che aveva sempre avuto, facile agli scoppi d'ira. Lei ci cascò, con suo sommo orgoglio. Finì non propriamente bene, perchè l'idea era davvero stupida e il terreno non esattamente favorevole. Si schiantarono, letteralmente, ma almeno non finirono di sotto. Ci finirono invece i carretti, che ovviamente non dovevano toccare, per cui, erano guai grossi. Molly gli saltò addosso, come tante volte prima e cominciarono a rotolare nella polvere a prendersi a botte, mentre attorno gli amici incitavano alla rissa e il piccolo Dean cercava di separarli. Sotto un coro di "Botte-Botte-Botte-Botte" Cole fu costretto ad incassare i cazzotti di Molly, e cercare di bloccarle le mani. Non la picchiava, perchè mesi prima gli accadde di fare sul serio e lei si fece davvero male, una cosa che in fondo, per quanto idiota fosse, non si era ancora perdonato. Dieci anni e già incredibilmente stupido. Con le mani strette attorno ai suoi polsi riuscì finalmente a sopraffarla, sulla riva, che sotto poteva sentire il gorgogliare del fiume nelle rapide. Ansante e dolorante, la fissò a lungo mentre gli altri si erano dati ad una rapida fuga perchè stavano arrivando i genitori. La jeep macinava polvere su polvere, lasciando una scia facilmente intuibile. 

- Sta arrivando papà, Cole, andiamo! (Dean era preoccupato)

- No! Winger deve chiedere scusa!
- Ma scusa di che! Tu mi hai buttata fuori strada!
- Non essere ridicola, sei stata tu a tagliarmela!
- Non è vero, rosichi perchè stavo vincendo e se non fossi stato così incapace alla guida, staresti piangendo per l'amara sconfitta, come sempre!
- Sei davvero una brutta cretina, Molly Cox!
- Non chiamarmi Molly, idiota!
- Ti chiamo come mi pare e piace, stupida Molly.
- Smettila Cole!
- No che non la smetto, faccio quello che voglio, hai capito? E tu farai quello che voglio io!
- E perchè dovrei, sentiamo?
- Perchè mi appartieni, ecco!
- NON E' VERO NIENTE!
- SI' INVECE!
 
Lei non sapeva come rispondere e lui ne ghignò. Succedeva ogni volta. Ogni volta finivano per litigare, farsi male, prendersi a parolacce e poi lui, puntualmente, la zittiva e facevano pace. Dopo un giorno o due. Cole era fatto così. Adorava prenderla in giro, e per quanto si ostinasse a dire che stava meglio quando lei non c'era, non era vero. Avevano le stesse passioni, gli stessi sogni. Lei era la sua migliore amica e, crescendo, si rese conto che non si trattava solo di quello. Da ragazzino era secco, con i capelli biondi dal ciuffo laterale, gli occhi azzurri del padre e un sorriso sempre brillante. Era intelligente e spigliato, ma aveva anche un carattere ribelle, indomabile. Voleva sempre averla vinta, non sopportava di essere secondo a nessuno e affrontava chiunque o qualsiasi stupida sfida pur di dimostrare di essere il migliore. Crescendo non migliorò affatto. Affinò solo le sue abilità di pilota, concentrandosi unicamente su quello e sulle armi. Sapeva sparare bene, e puntualmente finiva nei guai per quello. E lei era sempre lì, in mezzo ai piedi, a litigare, a finire per odiarsi e poi tornare insieme. 
Molly cresceva in maniera del tutto insperata, causando acidità di stomaco a Jacob e a William, perchè Cole era davvero uno scapestrato senza controllo nonostante Cooter ce la mettesse tutta per raddrizzare il figlio. Finirono anche per scappate, via da lì, insieme, ma ripescati il giorno dopo e trascinati a casa con le cattive, tre settimane prima che decidesse di andare in guerra. Non era affatto contenta.

- Se volevi una scusa per lasciarmi almeno potevi evitare di andare in guerra, sai?
- Oh cristoiddio, Winger, non voglio lasciarti!
- A me sembra tanto che lo stai facendo.
- Bhè, non capisci un cazzo. Non ho intenzione di discuterne anche con te. Dovresti essere felice, vado con Dean, Pà e con Dusty. 
- ...
- Winger, ascolta...
- No, Swift, ascolta me. Se tu vai a combattere questa guerra, tu non tornerai a casa. Perchè devi sprecare il tuo talento? Pà dice che non ha senso, che non c'è bisogno perchè non c'è speranza. I Corer non avranno piet-
- TUO PADRE NON SA UN CAZZO!
- ...
- (diede fondo a tutta la pazienza che aveva) Io ti amo, e farò il possibile per tornare da te, ok? Ricordi cosa ti ho promesso quando per poco non ti beccavi un proiettile per colpa mia?
- Sì. 
- Ti fidi di me?
- Sì.
- Brava. Ora sorridi, adoro quando lo fai.

Si sforzò di sorridere per lui. Si era fatto estremamente affascinante, molto simile al padre, nei tratti, ma aveva quella sfrontatezza e quel sorriso strafottente che mandava le ragazze in brodo di giuggiole. Lei era troppo orgogliosa per dargliela vinta, ma, intimamente, subiva come tutti il suo fascino da cattivo ragazzo. Di contro, l'ostinazione di lei era quello che lo faceva impazzire. Non era mai stato elegante, nemmeno delicato. Aveva solo imparato a gestirla, conoscendola come le sue tasche. L'afferrò per i fianchi e se la tirò addosso, rubandole un bacio, prima di caricarsela in spalla, tra gli schiamazzi e le lamentele, con tanto di pacca goliardica sul sedere e di tuffo nella paglia nel fienile. La seguì, subito dopo, finendo per nascondersi tra il fieno, scavando per cercare di nascondersi meglio alla vista, scansando la polvere e sfilando fili d'erba dai suoi capelli. Era alto, era diventato ben piazzato, aveva spalle larghe e una vita estremamente sottile, i muscoli delineati dalle lunghe nuotate e dal lavoro manuale e quel maledetto ciuffo che gli scivolava sugli occhi, ma che in fondo adorava scansargli.

- Promettimi una cosa, Wing...

- Dimmi...
- Mentre sono via, non metterti la gonna. Non vorrei mai che qualcuno ti vedesse e pensasse che sei libera.
- Ma.. che c'entra??? E poi io con la gonna? Ma sei matto?
- Staresti bene, hai delle belle gambe.
- ... (era imbarazzata)
- Sei carina quando ti imbarazzi.
- Sono carina sempre.
- No, questo non è vero.
- Che stronzo!
- Questo sì che è vero.
- Cole...
- Molly...?
- Ti mancherò?
- Come l'aria. C'è (era indeciso) una cosa che non sono mai riuscito a dirti.
- Ah?
- Bhè ecco, io... io insomma. Molly io ti... insomma vuoi tu... mi spos-
- COLE JACKSON, DOVE CAZZO SEI????
- Merda, papà... vai! ARRIVO!
- Shit!
- Che diavolo fai nei fieno ragazzo?
- Cercavo... ahm... le chiavi!
- WINGER SEI LI'?
- ...
- Ma che vai pensando?
- Entra in casa, imbecille. Lo sai che non voglio che vi ficchiate nei guai! WINGER, vai a casa, tuo padre sta venendo a cercarti!
- Merda! BUONASERATA SIGNOR JACKSON!

Lui rideva, mentre lei partiva in quarta, di corsa, verso casa uscendo da dietro così che non potessero vederla. Suo padre non rideva affatto e anzi, continuava a tirargli ceffoni che lo facevano scivolare con il ciuffo davanti agli occhi azzurri. Era irrecuperabile, lo erano entrambi. Due giorni dopo sarebbero partiti. Lui le scrisse, spesso, fino a che fu possibile, poi però arrivò quel dannato giorno: Serenity Valley.  

Non riuscì mai a chiederle se volesse sposarlo e forse è stato meglio così. Non si sarebbe mai perdonato di farne una vedova, così giovane.




***

Doctor Lee Wong


- Perchè usiamo le arance?
- Perchè la pelle umana è più difficile da bucare di quanto immagini, ci sono molti strati al di sotto e non puoi esercitarti a bucare il sedere della gente così, per imparare.
- E perchè non una patata o un pomodoro?
- La buccia del pomodoro è troppo sottile, la patata invece non ha proprio niente a che vedere con il corpo umano, è troppo tosta, no?
- Mh...
- No?
- Mi hai convinta.
- Oh grazie, troppo magnanima Dottoressa Cox.

Lei rise. Lui la guardava ridere e se ne compiaceva. Gli avevano insegnato che ridere non era mai un bene, per quello non esagerava mai, non c'era mai reale compiacimento, ma solo un mesto e quieto concedere. Aveva i tratti scavati dal tempo, quaranta due anni, ma nessuna striscia di grigio o bianco tra i capelli. Non era mai stato alto, però era nervoso, i muscoli tesi, gli occhi neri, la pelle gialla come tutti i cinesi. Niente di diverso dagli altri. Di carattere, Lee Wong era un uomo introverso, comunque in grado di mantenere una parvenza di fredda cortesia, educazione e gentilezza apparente. Stava sempre attento a non perdere il controllo, metodico in ogni cosa. Per questo era strano che l'avesse accetta sotto la sua ala per qualche tempo, per insegnarle quello che c'era da sapere sul come fare il medico. Non aveva mai avuto assistenti, li trovava di enorme peso e fastidio, più un ridicolo eccesso di zelo che una reale necessità. Con lei era stato tutto diverso. Già quando era bambina l'aveva aggiustata innumerevoli volte e per quanto si lamentasse e strepitasse come una bambina viziata, sapeva che si sarebbe rimessa senza lamentele. Aveva lo sguardo vivace ed intelligente di chi si interessa con genuina curiosità e senza ristrettezze mentali a quello che faceva. Ebbe la conferma della buona scelta fatta  quando fu chiamato d'urgenza dalla famiglia Carter e lei lo accompagnò. Parlò con Aaron e seppe cosa doveva fare anche solo ascoltando. Guardandosi attorno non vide più Molly, la trovò ad avere cura di un cavallo che si era rotto la zampa, il motivo per cui lui era lì.


- Winger, come mai sei qui?
- Va abbattuto, Lee.
- Sì.
- Lo sapevo, però sarà veloce vero?
- Certo, come sempre.
- Tu dai una morte pulita a tutti quanti, sì?
- E' quello che cerco di fare.
- Perchè se la meritano tutti, una morte pulita?
- Non tutti.
- No?
- No, ma non fa differenza.
- Suppongo. Berta dice che tu preservi la vita.
- Vita e morte sono le due facce della stessa medaglia, un equilibrio che molti dimenticano necessario.
- Posso farlo io?
- Vuoi farlo tu?
- Sì.
- Devi avere la mano ferma.
- L'avrò.
- Soffrirà se non avrai mano ferma.
- Non sta già soffrendo?
- Molto, sì. 
- E' pietoso, questo?
- No. E' l'unica cosa che possiamo fare, è inutile prolungare le sue sofferenze oltre, e il padrone non è disposto a tentare nulla.
- Non c'è niente che si possa fare.
- Ne sei sicura?
- Sì.
- Come lo sai?
- Guardalo.

Lee lo guardò. Il cavallo si era fratturato la zampa in tre parti, non sarebbe mai tornato lo stesso, pur con un miracolo, e comunque sembrava stranamente abbattuto, il ventre gonfio, il respiro strano. Aggrottò la fronte.

- Winger il cavallo...
- E' malato.
- Come lo sai?
- Ha una ferita purulenta sotto lo zoccolo della zampa rotta. Probabilmente è per quello che è successo tutto questo.

Si chinò a guardare sotto lo zoccolo, era vero. Allargò lo sguardo e sospirò. Prese un lungo respiro e aprì la borsa, cacciando la pistola. Gliela porse era carica. Molly fasciò la testa del cavallo in modo che non potesse vedere, il respiro dell'animale si era calmato, ma effettivamente la bestia era divorata dal dolore e dalla malattia, c'era qualcosa di folle e disperato nei suoi occhi scuri, prima che il buio calasse e la quiete lo cogliesse. Lei aveva la mano ferma, teneva gli occhi aperti e quando premette il grilletto fu una morte pulita. Sapeva dove sparare.

- Brava.
- Grazie.
- Adesso andiamo, dai. 
- Che ne faranno?
- E' infetto, va bruciato.
- E' meglio.
- Sì.
- Winger... 
- Sì Lee?
- Torniamo in studio, ti insegno come suturare una ferita, vuoi?
- Con le arance?
- Ahahaha. No. Con le zampe di maiale.
- Schifo!

Continuò a ridacchiare, ma fece esattamente quello che le aveva detto. La riempì di pezzi di maiale, con la cotenna e tutto, su cui esercitare le suture. Scioglierle e rifarle da capo, con una cura meticolosa. In venticinque anni di onorata carriera ne aveva viste di ogni colore e non si era mai sentito orgoglioso di quello che sapeva fare. Lo aveva imparato perchè dovuto, perchè c'era sempre stato un Dottor Wong, in quella parte di Shijie e doveva continuare ad esserci, ma non aveva mai nutrito alcun interesse per il suo ruolo, nè cercava soldi o fama. Era dovuto, tutto qui. Il padre glielo aveva detto, che non sarebbe mai stato eccelso, eppure, guardare gli occhi chiari di quella ragazza e trovarci un pizzico di ammirazione gli faceva bene all'animo. In fondo era per questo che l'aveva accolta, no? Per la luce nei suoi occhi. 


***

Berta Kavanagh



Faceva un freddo cane. L'estate era stata particolarmente torrida, e tutti convenivano nel dire che l'inverno sarebbe stato, di contro, decisamente rigido. Già verso settembre l'autunno fece piombare la regione in una sequela di interminabili giorni di pioggia, e ben presto, alla fine di ottobre, arrivò anche la neve. I primi di dicembre ne cadde talmente tanta che i genitori o chi per loro furono costretti ad andare a prendere i ragazzini dal monastero, alla fine delle lezioni. Berta fu spedita a recuperare Molly, visto che Will e Jacob erano in viaggio. Quando arrivò, il cortile era gremito di urla. Non era mai stata una bella donna, anzi. Alcuni la scambiavano per un uomo, e lei si vestiva come tale. Sempre imbronciata, masticava tabacco e sputava costantemente. Aveva un dente d'oro, mani callose e abituate ai lavori duri. Nel cortile del monastero si ritrovò a guardare una giovane Cox intenta a menarsi con un gruppo di altri ragazzini. Era arrivata prima, per cui nessuno dei genitori né dei monaci era lì presente a tenerli d'occhio.

- Ehi! Che accidenti vi prende?
Un coro di 'Botte! Botte! Botte!' si era levato dal gruppetto che circondava un ammasso di ragazzini inferociti come un ring creato appositamente per lo scontro. Erano in sette: Molly e Cole contro altri cinque. Lei le aveva prese di santa ragione, le erano saltati due denti da latte, aveva spaccato il labbro ed aveva un occhio mezzo chiuso a causa di una tumefazione che faceva pensare in un bel occhio nero, l'indomani. La sclera era macchiata da qualche capillare spezzato, eppure non si fermava. Continuava a mulinare pugni, cercare di mordere e tirare calci come un'assatanata.

- Ridillo un'altra volta Ffe hai coraggio! Ridillo, Malcom!
- Sei una stupida orfana! Tua madre non ti voleva!
- DAAAAAAAAAH!
- Non Ffai niente!

Le esse le fischiavano quando parlava. Era buffa, ma quello che preoccupò Berta era l'argomento della lotta. Arrivò alle spalle di Dean Jackson, che povero ragazzo cercava solo di farli smettere:

- Vi prego smettetela, Cole! Così vi fate male! Guarda quanto sangue!
- Fatti gli affari tuoi, Dean!
- MA SONO MIEI!
- FFTA FFITTO DEAN!
- Ma... Winger...

Berta appoggiò la mano sulla testa di Dean e gli sorrise, spostandolo senza aprire bocca. Avanzò verso la zuffa e spedì uno per uno i ragazzini col culo nella neve, cercando di liberare Molly. La prese per la collottola della giacca, scrollandola come un gattino. Era secca, per quanto imbottita dal giubbotto, per la donna robusta non era davvero un problema sollevarla, lo faceva sempre con le casse. Lei era il meccanico di fiducia di tutta la zona, oltre che il macchinista della Destiny.

- LaFFFiami, Berta! Devo Ffpaccargli la faccia!
- Tu non spacchi la faccia a nessuno, Winger. Adesso vieni a casa.
- Ma... ma... MA BERTA!
- Non 'Ma Bertarmi', sai?
- UFFFFFFA!
- E voialtri, prima che vi pigli a schiaffoni e vi spedisca dai vostri genitori con i culi in fiamme a furia di pedate, vedete di girare al largo. Jackson, prendi tuo fratello e portalo a casa, che il ragazzo deve venire in officina più tardi!

Berta Kravanag era la voce più sgraziata e greve che la regione ricordasse. Era una donna estremamente corpulenta, i tratti grossolani, la scarsissima cura di sé stessa. Era la sesta di sei figlie femmine. Il padre, Arthur, aveva tentato inutilmente di avere un figlio maschio. Diceva sempre che Berta era la cosa più vicina che era riuscito ad ottenere. Qualcuno diceva che le piacevano addirittura le donne, ma non davanti a lei. Era facile alla rissa e soprattutto era davvero brava con i coltelli, oltre che con gli attrezzi. Nessuno osava contraddirla, perchè i suoi calci erano rinomati in tutta la regione per aver spedito più di un galantuomo a ruzzolare nella polvere. Aveva 39 anni, era zitella, e di chiacchiere su di lei ne intessevano a bizzeffe, ma lei non se ne importava. Era una formidabile cavallerizza, sapeva suonare l'armonica e aveva anche insegnato a Molly come smontare e pulire per bene revolver e shotguns. Lavorava nell'officina del padre, lui le aveva insegnato tutto quello che sapeva, e quando l'artrite reumatoide gli indurì le mani al punto da non poter più reggere un cacciavite, lei prese le redini della baracca e riuscì a raccattare giovani volenterosi: Dean Jackson era uno dei novellini, a quel tempo era solo un garzone, ma avrebbe imparato presto a fare di tutto e a rendersi molto utile.

- Mi fai male, Berta!
- Ti sei fatta male da sola, Winger.. che cavolo ti è venuto in mente di azzuffarti con quelli? Malcom Godspeed è almeno tre anni più grande di te, per non dire più grosso. Quante volte ti devo dire di non attaccar briga con quelli più grossi?
- HAI FFENTITO COFF'HA DETTO!

Molly si stava alterando. Ma Berta non era proprio tipo da sottostare agli scleri di una ragazzina. Si voltò mentre la trascinava verso la jeep, la fissò diritta negli occhi, con quello sguardo scuro, marrone quasi nero, occhi piccoli e terribilmente profondi, che la misero in riga senza nemmeno dover aprire bocca o sciogliere il piccolo broncio che la caratterizzava. Sputò un grumo di saliva e tabacco.

- FcuFa Berta.
- Così va meglio, sali sulla jeep.
- Fì.
- ...
- ...
- ... Ascolta Winger, so che ti fa rabbia questa situazione, ma devi ricordarti sempre che tutto quello che diranno su tua madre sarà solo per ferirti, right? Perchè tua madre non ha voluto lasciarti, è morta mettendoti al mondo. E no, non è colpa tua, prima che ti venga in mente anche solo di pensarlo. Ne incontrerai tanti ancora coglioni quanto Malcom Godspeed, dio non voglia, forse anche peggio di lui. Ma devi sempre ricordare che hai avuto una fortuna che ad altri non è toccata: quella di avere qualcuno che ti amasse e si prendesse cura di te.
- Lo Fo, Berta, FcuFami.
- Basta scuse, sai che odio i piagnistei. Piuttosto, prendi il fazzoletto e datti una pulita. Se i tuoi tornano con te in queste condizioni, poi chi glielo spiega?
- Ma tu non centri niente, Berta, glielo dico io a papà che non è Ftata colpa tua.
- Sei molto carina, Winger, ma è mia responsabilità avere cura di te quando tuo padre è in viaggio, got that?
- Yep.
- Ora fai la brava, pulisciti un po' il viso che ti porto in città e Lee ti da un'occhiata. Starai in officina con me, oggi, tanto a casa non c'è nessuno.
- Okay!

Era bastato davvero poco perchè Molly smettesse di essere triste. Berta la guardava con una certa dolcezza. Forse era l'unica persona in grado di farla ammorbidire un poco, perchè era burbera con tutti. Con Will non faceva altro che urlare, e lui ovviamente le rispondeva a tono. Con Jacob c'era una fredda lealtà, impostata su toni molto blandi. Potevano stare in silenzio per molto tempo e nessuno dei due si sarebbe smosso. Parlavano mugugnando, comunicavano a quella maniera. Molly Cox, la madre di Jac e Will, aveva messo al mondo le ultime tre sorelle Kravanag. Le famiglie erano molto vicine, e Berta adorava la vecchia . Quando lei morì, promise che si sarebbe presa cura della piccolina a cui avevano dato il suo nome, giusto per non dimenticarsi mai chi l'avesse messa al mondo. A suo modo, lo fece, sempre e comunque. Lei c'era sempre, quando c'era bisogno di lei. L'unica figura femminile, a parte Mary-Ann Jackson che Molly ricordi di aver avuto nella propria vita, per quanto, femminile non sia propriamente il primo termine che viene in mente quando si pensa a Berta Kravanag.