sabato 6 aprile 2013

Shijie, March - September 2503

Quando si metteva in testa qualcosa era impossibile farle cambiare idea. Davvero. Il padre sapeva che non ci sarebbe stato verso, ma almeno aveva fatto una scelta che poteva appoggiare, per una volta in vita sua. Aveva sedici anni e aveva deciso che non voleva più andare su al monastero a studiare. Sapeva far di conto, leggere, scrivere correttamente, ma le lezioni si erano fatte noiose e lei non faceva altro che combinare guai e finire con lo scontrarsi con gli uomini di chiesa, costringendo spesso uno dei due uomini Cox a salire per venirla a prelevare o dover discutere con la gente per colpa sua. 

- Winger sei sicura di quello che vuoi fare? Guarda che Lee non ha tempo da perdere.
- Sono sicura pà, almeno imparo qualcosa di interessante.
- Se lo dici tu.
- Se non vuoi guarda che basta dirlo eh.
- No, non è questo... fa come preferisci.
- Davvero?
- Yes. 
- Cool!
- ...

L'entusiasmo della giovane donna non lo tranquillizzava, ma la vide sorridere in una maniera che non poteva davvero lasciarlo indifferente, e poi sapeva che così l'avrebbe tenuta lontana da quella testa calda di Jackson, almeno per un po'. Jacob la seguì fino alla sua stanza, dove lei corse, scalza, con i calzoni arrotolati attorno alle ginocchia e la camicia larga in cui navigava goffamente. Stava preparando la valigia. Strano ma vero, in quel momento si rese conto che, per la prima volta nella sua vita, lui e suo fratello, al ritorno dal prossimo viaggio non avrebbero trovato il musetto arruffato di quella bestiola di Molly ad aspettarli. Portò la mano a massaggiarsi gli occhi stanchi, mentre l'ennesima ruga faceva capolino e il cruccio si faceva più marcato, netto.

- Hai preso tutto?
- Yes, sir!
- Mi raccomando, io e tuo zio partiamo per Richleaf, sai quanto ci vuole a tornare, no?
- Yup.
- Non combinare guai mentre non ci siamo, right?
- Right!
- E... Wing...
- Sì, papà?
- Niente. Vieni dai che ti accompagno in paese.
- Ah-ha!

Era solare come da tempo non la vedeva, questa nuova avventura, la possibilità di scegliere per sè, la riempivano d'orgoglio. Una settimana prima Molly si era presentata davanti alla stanza del padre, chiedendo di parlargli. Lui l'aveva fatta accomodare sul suo letto, con la trapunta ad uncinetto fatta dalla nonna. Si era anche pettinata, per cercare di fare una buona impressione. Gli sorrise e cominciò a spiegare che era andata in paese e che aveva pensato, incontrando per l'ennesima volta il loro medico, che magari avrebbe potuto stare con lui e fargli da assistente, per un po'. Lee l'aveva sempre detto che lei, con tutte le volte che si era fatta male o che aveva assistito qualcuno che s'era fatto male, sapeva più cose di un qualsiasi studente di Medicina del Core. La cosa la fece ridere, ma scavò un solco abbastanza profondo da spingerla, dopo un bel po' di progettazione, a fare proprio questa scelta. Glielo aveva chiesto contro il volere dello zio e per una volta Jac fu abbastanza felice di sapere che Molly non andava appresso al parere di Will, con la stessa feroce costanza di sempre. 

- Allora io vado eh?
- Sì, non ti preoccupare, farò la brava perchè se no poi Lee ha detto che mi cuce la bocca.
- Ecco, non sarebbe una brutta idea eh. 
- Papà!
- Scherzavo. Allora... ciao eh.
- Bye!

Lasciarla gli era pesato tanto, ma lei era lì, sul ciglio della strada polverosa che agitava la mano mentre con l'altra reggeva la valigia con le sue cose. Quel dannato sorriso, era una sorta di incantesimo strano, aveva un effetto davvero pazzesco su di lui e non poteva fare a meno di pensare che, a volte, sembrava quasi stregoneria o un angelo.  
Molly guardò il padre partire in jeep lungo la strada polverosa, lasciata davanti lo studio in città del medico del paese. Lee le aveva riservato una stanza al piano superiore, modesta, con una brandina ed il lucernario, in modo che potesse vedere le stelle. Era un uomo estremamente pacato, il dottore. Difficile riuscire in qualche modo a distrarlo da quello che stava facendo, ancor più metterlo in difficoltà. Sorrideva spesso, ma non lo faceva mai con gli occhi. Era velocissimo, una mano tanto ferma da lasciare con il fiato sospeso. Lei passò con lui sei mesi, in cui riuscìn ad imparare come riallineare una frattura scomposta, fasciare una ferita al meglio, riposizionare ossa, tamponare, pulire, addirittura suturare una ferita. Gli fece da assistente per lungo tempo, fino a che una notte non successe qualcosa. Mentre dormiva bussarono alla porta, con tanta violenza da smuoverla dai propri cardini. Non erano bussate di mano, ma pedate vere e proprie. Saltò in piedi con il cuore in gola, prese la lampada e corse scalza giù per le scale, aprendo la porta. Un uomo teneva in braccio una bambina, era completamente cosparso di sangue, polvere e sudore, aveva corso per molto mancava di fiato e di pazienza. La creatura che aveva in braccio avrà avuto sì e no una decina d'anni.

- Dov'è il dottore?
- E' uscito per un'emergenza, la signora Foster sta partorendo.
- Merda! Ci devi pensare te a lei allora.
- Cosa? Ma io non posso... non sono medico
- Ci sai cavare i proiettili no?
- Bhè...
- Sì o no?
- Sì però...
- E allora cavaceli.

L'uomo le buttò praticamente addosso la ragazzina che gemette di dolore. Si teneva la pancia. Lei mollò la lampada che cadde e si ruppe, spegnendo la luce artificiale che emanava blandamente. Arretrò ma, per chissà quale stimolo divino, riuscì a reggere il peso della bambina. Stentando si volse, bianca in viso, trascinando con sè la vittima fino al lettino. Accese tutte le luci, lasciando ditate rosse sugli interruttori. 

- Cos'è successo?
- Non sono affari che ti riguardano, guariscila.
- Devo saperlo se no come faccio a metterle le mani addosso?
- Ci ha preso dei pallettoni, un paio di colpi.
- Un paio?!?
- Insomma, sei un medico o no? Guardala e capisci da te cosa è successo.
- Non sono un medico ti ho detto.
- E' uguale, dalle una sistemata che dobbiamo muoverci.
- La ragazza non va da nessuna parte, almeno per un po', ha perso molto sangue.
- Tu non sei nessuno per dire dove va, io dico che va.

Litigare con l'uomo era inutile. Non lo aveva guardato, aveva occhi solo che per la ragazza che si lamentava costantemente per il bruciore e i dolori al ventre. Prese le forbici, le dita erano viscide di sangue. Cominciò a tagliarle i vestiti di dosso, notando quanto fossero bucherellati. Le levò la camicetta grondante e capì subito che non avrebbe potuto fare molto. 

- Merda...
- Cosa? Cosa?
- Niente.
- Guariscila o ti riempio di piombo mocciosa.
- ...

Adesso sì che volse lo sguardo all'uomo. Aveva un revolver puntato in faccia. Allargò gli occhi. Anche lui aveva una spalla fuori uso, ma non sembrava importargli.

- Faccio il possibile.
- No, tu fai, perchè se lei muore, tu fai la stessa fine.

Sbattè le palpebre, sbiancata per la situazione di merda in cui era capitata. Con le dita tremanti cominciò a ripulire le ferite. Prese gli strumenti, una dose di morfina, che le iniettò nel braccio sottile. Le diede da mordere una fascia di cuoio, mentre cominciava ad estrarre i pallini. Alcuni avevano fatto sprofondare nella carne il tessuto della camicetta e quello era un rischio reale di infezione, più di qualsiasi altra cosa. Il respiro accelerato, l'uomo che lasciava una striscia di sangue sulla parete a mano a mano che scivolava verso il basso, la canna del revolver sempre saldamente puntato verso di lei. Doveva stare attenta, perchè la ragazza era rigida e tremava, probabilmente lo shock. Era piena di buchi, non poteva fare niente eppure doveva continuare a provarci o si trovava lei un proiettile in testa. 

- Quanto ti ci vuole ancora?
- Hai visto quanti cazzo di pallini ha in corpo? Ci vuole il tempo che ci vuole, merda.
- Cosa?
- Niente.
- Cazzo smettila di dire niente!
- E' spacciata, va bene? CHE CAZZO TI DEVO DIRE??? 

C'era troppo sangue. Per quanto provasse a tamponare, c'erano troppi buchi, la ragazzina era un dannato colabrodo e ogni volta che cavava un pallino dalle sue carni trovava un altro buco in cui andare a cercare. Ci vedeva praticamente doppio, sudava freddo e la ragazza continuava a non reagire come avrebbe dovuto. Sapeva che le stava scivolando la vita tra le dita e non aveva modo di fare nulla. Strinse i denti, tremante, provando ogni cosa, cercando di respirare di non lasciarsi andare. Il tanfo del sangue rappreso tra le dita, nonostante continuasse a sciacquare gli strumenti, ce n'era ovunque e sentiva anche il marciume dell'infezione cominciare ad intaccarne le carni. 

- Ha bisogno di un ospedale, non posso fare niente in queste condizioni.
- Non ce la porto in un fottuto ospedale dove fanno troppe domande, tu adesso risolvi.
- Non sono dio, porca puttana, non risolvo le cose schioccando le dita e non sono nemmeno un cazzo di medico!
- Tu hai detto di esserlo. Io ti sparo, cazzo, TI SPARO HAI CAPITO?!?
- Non è vero, tu hai detto che lo ero e non hai voluto sentire rag-

Si interruppe di colpo, la ragazzina aveva sgranato gli occhi e l'aveva afferrata. Ci fu un rumore netto di vetri infranti e si voltò verso la finestra ed era a pezzi, sul pavimento, pensò fosse stato lo sparo, ma non c'era stato nessuno sparo. Si volse di nuovo all'uomo che le puntava la pistola in faccia e non lo vide, o meglio, lo vide crollare a terra. Non capì subito cosa fosse accaduto, ma poi, nei riflessi della luce, vide barluginare una quarantina di aghi conficcati nella carne del poveraccio. La ragazzina sussultò e poi crollò di nuovo. Si sentì mancare, vide il volto di quello che fino a poco prima l'aveva tenuta sotto tiro bucherellato da sottilissimi aghi da agopuntura, anche negli occhi. L'immagine raccapricciante vista la piega che avevano preso i muscoli, tesi dai nervi sollecitati in maniera micidiale dalla pressione di quegli aghi. Sentì le gambe venire meno, ma non impattò con il pavimento. Lee era alle sue spalle, agguantata saldamente la fece sedere sulla sedia a dondolo che teneva in un angolo, come un complemento d'arredo più che di reale utilità. La camicia da notte era completamente lordata dal sangue, ma non le interessava. Il dottore si mise subito all'opera sulla piccola Amy, ma nulla valse il suo intervento. La bambina spirò dopo alcune ore. Aveva perso troppo sangue, era in stato di shock e le lacerazioni causate dai pallini di piombo erano troppo gravi perchè qualcuno potesse fare qualcosa. Pulendosi le mani nel catino, il dottore si avvicinò a Molly, i cuoi occhi erano ancora inchiodati sul viso dell'uomo, visibilmente morto. 

- Hai fatto il possibile, Winger, non ti dare peso, vai a farti la doccia adesso.
- E'... 
- Morto? Sì.
- Ma...
- Cosa?
- Tu, insomma, come...?
- Ho semplicemente valutato che tu fossi più importante di lui, tutto qui. A volte bisogna fare delle scelte.
- Ma quegli aghi...
- Lo so, non è una bella scena, ma con una doccia bollente e un buon sonno, vedrai che passerà tutto.

Non fu così. Levarsi dalla testa l'immagine di un ago che uccideva una persona non era così facile come cosa. E va bene che non era stato uno solo, ma almeno una trentina, per almeno due settimane continuò a ricordare quella faccia, orribilmente contratta e le punte di quegli aghi sprofondate nel vitreo molle degli occhi sgranati, una scena così disgustosa che ancora le faceva salire il vomito. Rimase per altre quattro settimane, ma poi non ce la fece più. Dovette tornare a casa, cambiare aria e fingere di dimenticare, tenendosi addosso quella repulsione insostenibile per tutto ciò che riguardava gli aghi, camuffando il terrore di quella notte in una paura immotivata ed infantile, come tante altre.