domenica 27 gennaio 2013

This land of confusion...

Non c'era verso. Aveva chiuso gli occhi poco meno di quattro ore prima, ma il dolore aveva deciso che non meritava sonno, stanotte. Con lentezza estenuante si calò fuori dal letto che condivideva ormai da qualche giorno con la sorella. Anya l'aveva accolta in casa sua, dato che allontanarsi da Horyzon richiedeva troppo tempo, e lei aveva visite periodiche da sostenere all'ospedale, oltre ad avere una gara, in vista. Tutti buoni motivi per rimanere incastrata a terra. Se ne stava davanti alle finestre, ad osservare il panorama esterno, cercando il cielo con occhi cerchiati dal fastidio e la rassegnazione. Il mal di terra ormai era diventato insostenibile, ma in qualche modo, il bruciare alla clavicola diventava quasi un modo per esorcizzare il problema, le occupava mente e cuore, lasciandola troppo stordita per pensare lucidamente ad altro. Guardò il flacone che le stava sempre accanto, stringendo le labbra a rendersi conto che, ormai, la soglia che le avevano detto di non superare l'aveva lasciata ben alle spalle, e continua, a testa bassa e muso duro, in una discesa senza ritorno. Non poteva farne a meno. Lo sapeva, e se n'era convinta. Un suono nella stanza da letto la fece voltare di scatto e trattenere il fiato. Era troppo presto perchè Anya si alzasse e temeva di averla disturbata, ma fortunatamente, quando si affacciò, la sorella continuava a dormire serena. 
Non c'era bagno bollente o sorso di alcol che poteva cancellare il fastidio di una nottata in bianco. Non fece il caffè perchè l'aroma avrebbe funto da sveglia per la Korolevita, ma accarezzò sovente l'idea di uscire. Si era già vestita, ciondolando in quella casa bianca, con i mobili di non capiva che strano materiale, asettica e spaziale. C'era qualcosa di inquietante in tutto quel bianco, e personalmente, per quanto affascinata, non avrebbe mai vissuto davvero in una casa simile. Con un bicchiere sottomano si sedette sul divano. L'holo-tv tenuta bassa, il c-pad che segnava un orario imperdonabile. Con un gran sospiro, riprese ad ascoltare i messaggi registrati. In quei momenti non trovava altro conforto se non nel chiedersi ripetutamente perchè. Perchè loro? E nel silenzio, con una pubblicità di un viaggio di lusso sulla Carnival Mistress, trovò l'ironia di sbuffare un minimo e spegnere il dannato aggeggio.  
Il sole del sistema Central stava sorgendo, le lame di luce penetravano le tende e lei era lì, con la testa buttata all'indietro, a fissare i movimenti tenui del tessuto sintetico bianco, smosso dall'aria centralizzata che teneva la casa in temperatura. Il bicchiere ancora lì nella mano, il ghiaccio sciolto in un alone umido sotto di esso, che aveva provveduto ad arginare con un sottobicchiere improvvisato. Il tintinnare riempiva il silenzio della stanza. Il dolore si era ammansito e l'espressione distesa lasciava intendere che forse, aveva vinto, ma era pura illusione. Il flacone stappato, una dose sempre più massiccia buttata giù direttamente, senza nemmeno più l'acqua: come fossero caramelle. 
La passeggiata a Carpathia Square non l'aveva aiutata a mettere chiarezza in testa, il giorno prima, e nemmeno aveva fatto visitare i giardini con la sorella, per quanto, sfogarsi sia sempre una buona maniera di organizzare i pensieri, il nodo era talmente grande da non sapere davvero da che parte cominciare, per cercare il bandolo di quell'assurda matassa. Sapeva di non potere rimanere senza far nulla tutto il tempo, pesando fastidiosamente sulle spalle della sorella, ciondolando e lambendo nell'inoperosità, mentre tutto il resto rientrava nei ranghi. Guardò l'elenco dei contatti nel c-pad, fece il punto della situazione: doveva scaricare i contenuti sull'Holodeck e pulirlo, e doveva assolutamente prendere un altro cortex pad. Attivò il deck, con un gran respiro si mise a fare una ricerca: Mike Carpenter. Il nome era stato suggerito da Vergil in una delle sue comunicazioni. Forse avrebbe dovuto ignorarlo, ma non aveva la forza di recidere in maniera così netta quello che la legava alla sua famiglia, perchè in fondo, per quanto si sentisse abbandonata da tutti, allontanata o rifiutata, erano pur sempre la sua famiglia. Localizzò la zona nella mappa, cercò di capire come arrivarci senza dover chiedere in prestito la macchina della sorella. Lei non era molto d'accordo. Anya la voleva proteggere e Molly lo sapeva, avrebbe voluto tanto che lasciasse perdere tutto e che stesse lì, con lei. Glielo aveva anche detto:

- Magari potresti fare la collaudatrice alla Blue Sun, con me.

E ci aveva anche pensato, ma non avrebbe abbandonato gli altri, non sarebbe stata in grado di lasciare tutto, a piè pari, senza nemmeno avere modo di capire, chiarire, parlare. All'improvviso si rese conto di sentirsi tirata in mille direzioni diverse, senza però conoscere quella in cui voleva andare lei. Sapeva per certo che le mancavano alcuni tasselli della sua vita, che uno essenziale lo aveva e se lo teneva stretto, lì, nell'altra stanza verso cui gli occhi tornavano spesso a perdersi. Lei era qualcosa di imprescindibile, ormai. Pur non sapendo che avesse dato la vita per proteggerla, il loro legame era ormai indissolubile, al punto da pensare, a tratti, quando il dolore era troppo e le emozioni un'onda pesante da gestire, che fosse l'unica cosa per cui valeva la pena essere tornati; ma poi c'era lui. Sentire il cuore battere troppo rapidamente quando sul pad compariva il suo contatto, chiudere gli occhi e tendere i sensi a captare ogni piccola sfumatura nella sua voce, intristirsi quando lo sentiva depresso, cupo, preoccuparsi quando lo era lui. Non poteva farne a meno.

- Detesto le situazioni complicate.

Le mancava la nave, le mancava la sua famiglia. Non poteva negare l'evidenza ma allo stesso tempo aveva paura di affrontare la realtà, rendersi conto che tutto il resto era andato avanti, senza di lei. Fece un gran respiro. Finalmente il dolore era completamente assopito e la mente aveva preso maggior lucidità. Decise che doveva affrontare le cose, un passo alla volta. Che avrebbe colto l'opportunità di passare il tempo costretta su quel pianeta a fare qualcosa di costruttivo, piuttosto che di lambire nella nullafacenza. Che avrebbe affrontato le cose di petto, com'era abituata a fare, quando e se avrebbe avuto modo di affrontarle, senza stare lì a farsi le seghe mentali su cosa sarebbe potuto essere e cosa no. Non faceva per lei, continuare a pensare. Ormai il tempo obbligato a far correre la mente, mentre il corpo non poteva fare altro che riprendersi lentamente era passato. Poteva muoversi, doveva muoversi e come le aveva detto la sorella il giorno prima, in quegli splendidi giardini di viola e verde, loro non potevano stare ferme troppo a lungo. 

You must make some sense out of this land of confusion...

sabato 26 gennaio 2013

Feels like fire...

Erano ormai giorni che, nel cuore della notte, si svegliava di soprassalto. Madida di sudore, con il cuore in gola e la testa nauseata da un dolore insopprotabile. Nell'ultimo periodo le fitte alla spalla ricostruita andavano acutizzandosi, da che non erano che lievi fastidi appena percettibili, si stavano dimostrando profondamente seccanti. L'aver sospeso i medicinali non aiutava, e nonostante non subisse problemi di mobilità dell'arto, quel dolore era qualcosa di indescrivibile. La prima notte si svegliò urlando, con Trigger preoccupato che le stringeva le spalle, scuotendola per cercare di svegliarla dal sonno in cui era piombata. I medici le diedero un antidolorifico, e tutto sembrò quietarsi. Però non passava. Appena l'effetto degli analgesici andava svanendo, il dolore tornava ad affacciarsi. Ormai aveva imparato ad ascoltarlo: prima il pulsare, un calore sempre più intenso, poi il lampo bianco e le scariche che penetravano lungo la clavicola, fino allo sterno, invadendo i muscoli, la gabbia toracica, rendendo anche solo respirare un tormento. Solo con un paio di pillole riusciva a passare la nottata indenne, senza svegliarsi di soprassalto. Non c'era sangue, non c'erano spasmi, solo un bruciore incandescente. E pensò che ci si doveva sentire così con un proiettile in corpo.

- Cox, che succede, la tua sessione non è prima delle quattordici zero zero
- Lo so
- Dunque?
- Ho un problema.
- Di che genere?
- La spalla.
- Ancora dolori?
- Sì
- Uhm, vieni.

Roosvelt aprì la porta del bugigattolo che definiva come suo ufficio. Entrò, sfilandosi di dosso la giacca. Era appena rientrato dall'esterno, evidente, dall'odore che lasciava, che aveva fumato, il viso arrossato dall'aria fredda di Capital City. Cambiò le scarpe mentre lei si guardava attorno, un po' impacciata. Era troppo presto perchè lei fosse lì, evidentemente la cosa doveva essere seria.

- Vediamo.
- Mh.
- Qui fa male?
- No.
- Se piego così?
- Nemmeno.
- Raccontami il dolore.
- Mi va a fuoco, da dentro, è come se mi conficcassero qualcosa di arroventato, ma non sono i muscoli è...
- L'osso.
- Dici?
- Sì, la ricostruzione può dare questo genere di problemi.
- E quindi?
- Dovrai sopportare, probabilmente passerà in poco tempo.
- E che ci dovrei fare?
- Antidolorifici, pomate antinfiammatorie e controlli. La spalla non ha perso di mobilità, non sei limita, nemmeno impedita quindi non c'è nulla che non vada con i tendini o i tessuti rigenerati, probabilmente è solo dolore fantasma.
- Fantasma un cazzo. Non mi sveglio di notte urlando per i fantasmi.
- Prendi gli antidolorifici e non ti farà più male, ma stai attenta, esagerare significa che potresti non uscirne più.
- Lo so, lo so. 
- Tieni.

Roosvelt, dopo averle piegato e teso il braccio in ogni posizione, a valutare se effettivamente l'arto era inficiato dal dolore, le lanciò un flaconcino di analgesici che lei prese, rimpallandolo tra le mani prima di riuscire ad afferrarlo del tutto. Lo guardò, lesse l'etichetta familiare, o per lo meno i principi attivi lo erano. Sollevò un sopracciglio e annuì...

- Grazie
- Ci vediamo dopo per la fisioterapia.
- Ah ha. 
- Preparati a sudare, mocciosa.
- Sèh. Ciao vecchio.

Si chiuse dietro la porta, serrando le dita di scatto attorno al flacone arancione di pillole. Dalle narici sbuffò un fiotto d'aria calda, percependo di nuovo i primi acciacchi, la prima puntura, il primo calore. Si morse il labbro inferiore, svitando con una certa fretta il tappo bianco, si fece cadere due pasticche nel palmo della mano, guardandole con una certa apprensione. Strinse gli occhi, l'ennesima fitta le spedì una scarica lungo la clavicola fino a farle salire un nodo acido in gola. Non tentennò più, fermatasi nei pressi di un distributore d'acqua prese un bicchiere e buttò giù il tutto, senza pensarci due volte, appoggiandosi alla parete nell'attesa che facesse effetto. Massaggiare, schiacciare, tendere o tirare, non cambiava un bel niente, lui era lì, che le divorava l'osso, come se stessero cercando di strapparglielo o spolparla viva. Ci misero un po' a fare effetto, le medicine, ma alla fine raggiunse il sollievo, per quanto temporaneo. Rientrò in stanza, Trigger abbassò il techreader e le diede uno sguardo ammezzato, in parte preoccupato, in parte no. Sul letto c'era una busta, sintetica, di un negozio d'abbigliamento nei pressi.

- Dove sei stata?
- A fare una passeggiata. Tu?
- Me too.
- Questo?
- Per te, per quando uscirai da qui.

Nella confezione c'era un paio di pantaloni decisamente troppo attillati perchè fossero una sua scelta reale, ma avevano un taglio elegante e una bella stampa rossa in fondo, abbigliamento da Corer, senza dubbio. Corredati, i calzoni avevano un paio di stivali neri, dal tacco non propriamente alto, di moda sempre in quei posti da fighetti. Aggrottò le sopracciglia e lo guardò un attimo, perplessa. Loro non erano persone da indossare certi vestiti e non si spiegava il perchè di una scelta simile. In fondo c'era una fondina ascellare, l'unico pezzo che le era davvero piaciuto.

- Why?
- Perchè qua la roba nostra non si trova, piccola, e in fondo devi cercare di mimetizzarti un pochino, visto che resterai da Anya, no?
- Mh, non mi frega di mimetizzarmi.
- Non sono poi così male, non ti ho preso un vestitino con le balze, o sbaglio?
- Non oseresti.
- Non tentarmi. Comunque, io domani vado, torno un po' a Richleaf da tuo padre, magari dopo la gara farai un salto anche a trovare lui, mh?
- Ci penserò.
- ...
- ...
- How does it feel?
- It feels like fire...
 


domenica 20 gennaio 2013

Tell me pirate stories...

Il consiglio di Declan Khan era stato preso alla lettera. Se non crollava per le fatiche della riabilitazione che aveva cominciato a seguire, rimaneva la nottata in piedi - per modo di dire - a sfruttare il simulatore. L'aspetto non era migliorato, ma aveva cominciato a mangiare spontaneamente, l'ennesimo segno che stava tornando alla vita, quella vera, vissuta intensamente nelle piccole cose. Si poteva anche alzare per andare in bagno, considerando sempre che al suo fianco c'era una sedia a rotelle e che doveva comunque usare quella, ma l'autonomia è una gran cosa, per quanto limitata, quando hai passato non si sa quanto tempo stesa ed immobile, alimentata e depurata dalle macchine. I *bip* erano diminuiti, ma non le proiezioni. 

- Dovresti riposare, Winger.
- Riposerò quando sarò morta.
- Devi proprio usare quella frase, cristo santissimo?
- Uh? Scusa Trig è che... merda.

Si era schiantata contro un banco di asteroiri. La cosa le urtava i nervi. Ormai aveva capito come far funzionare il proiettore e dalla semplice simulazione di volo era riuscita ad aggiungere dettagli come imprevisti random: perturbazioni, banchi di asteroidi, detriti spaziali e qualche avaria calcolata e non debilitante.

- Che è successo?
- Ho aperto uno squarcio nello scafo.
- Capita.
- Un cazzo. Non deve capitare, siamo nel bel mezzo del 'Rim, con uno squarcio simile non andiamo da nessuna parte e la tratta non è frequentata, non è commerciale. Al massimo ci passano i Grayskin.
- Porca puttana Winger, che cazzo ti prende oggi? Hai deciso di portare sfiga?
- Siamo nel cuore del Central, Trig, non è che ci appariranno alle spalle così, di punto in bianco.
- Mhhhh!

Non era convinto. Come tutti i piloti soffriva di una forte scaramanzia. Nella sua testa dovevano essere tipo le undici di sera, ma il c-pad sul comodino, sotto la pianta dono di Quinn, la raccontava diversamente.

- Resetta.
- Ah? 
- Resetta e riprova. 
- Ma non dovevo riposare?
- Non è da te schiantarti con questa frequenza. Non ti starò accanto se non sai più pilotare.
- ...
- Scherzavo. Dai, fa provare me.
- Non esiste. Tu sei una capra con la tecnologia, se lo spacchi poi chi la sente la Khan?
- Ma no che non lo spacco!
- Vedi di non far cazzate però eh.
- Massì massì.

Gli cedette di malavoglia la cloche wireless, e la proiezione si spostò leggermente per favorire a Trigger di vedere meglio. La classe era sempre quella: Firefly. A lui non piaceva, così Molly decise di cambiarla in una Wyoming. Nemmeno quello l'accontentava, così scorse tra le varie plance fino ad individuare quella di una Brigade. Lì, il vecchio sorrise e si mise a seguire il programma che lo portava a decollare in maniera standard. Lei lo guardava. La proiezione lo avvolgeva in bagliori un pochino tremolanti, ma reattivi sotto le dita che toccavano il nulla, eccetto la cloche. Rise quando l'oggetto che tenva in mano vibrò per la prima volta, stupendosi di quanto fosse verosimile il tutto. Era stanca. Tese le braccia davanti a sè e le mani tremavano come se fosse malata di nervi. Sospirando, si fece scivolare leggermente sotto le coperte, muovendo a fatica le gambe dolenti. Non c'era un muscolo che non le facesse male, ma sopportava, in silenzio, dato che il dolore è prerogativa di chi sia ancora in vita e sano, per quanto strano possa sembrare. Controllò di nuovo il c-pad. Contò le ore che la separavano dalla prima visita degli infermieri: quattro. E con quella avrebbe dovuto ingoiare tre diversi medicinali, di cui una pillola rossa davvero poco allettante e troppo grossa per i suoi gusti. Poi, a due ore di distanza, sarebbe arrivato Adrian a portarla in sala riabilitazione per la prima sessione giornaliera. 

Adrian Roosvelt era un uomo adulto, oltre la quarantina, i tratti severi, gli occhi piccoli e chiari. A vederlo sembrava quasi marziale, questo per via del suo passato come soldato. Adesso lavorava all'ospedale di Capital City, si occupava della riabilitazione. Gli era stata assegnata la rediviva Molly Cox, non senza reticenze, giacchè la sua esperienza non era favorevole riguardo la procedura di rebirth, definita innaturale e dannosa. Ma era il suo lavoro e lo prendeva con grande serietà. Tenere testa al muso duro di Molly gli era costata non poca fatica, giacchè, per quanto pacifico, non era propriamente un tipo paziente. Un paio di volte finirono anche per scornarsi, ma la degente dovette abbassare la cresta quando, nel tentativo di incaponirsi e fare di testa propria, per poco non finì con il piantarsi un palo nel petto. Il fisioterapista l'acchiappò per la collottola e lei vide il palo dell'attrezzo ad un soffio dal proprio torace, esattamente dove sapeva, sotto la maglietta madida di sudore, che lì si trovava la cicatrice, il colpo mortale al cuore. Da quel momento, vedendosi mortalmente fragile e priva di difese concrete, vittima del mondo che la circondava, finì per non comportarsi più come la stupida ragazzina che le era stato detto di essere, e Roosvelt capì che in fondo non era stata lei a voler tornare, che era solo una manipolazione di chissà chi.

Trasalì. Trigger se la stava ridendo della grossa, avendo effettuato una tratta in cui lei finiva sempre per danneggiare irrimediabilmente la nave, senza un graffio e, addirittura, in minor tempo rispetto al previsto. Il suo risultato era lì che lampeggiava a colori sgargianti, quasi una luce a neon blu, impressa sui finti vetri della Brigade. Storse il naso, grugnendo in disapprovazione ma alla fine fu lui ad attirarne di nuovo l'attenzione.

- Guarda e impara, poppante.
- Mpf...
- Dahahahaha!
- Da qua...
- No, adesso dormi.
- Non ci riesco.
- Non mi dire che vuoi che ti racconti una favola, vero?
- Mh...

Ci stava seriamente pensando. Scivolò ancora sotto, adocchiando il c-pad. Un sospiro profondo e provò a chiudere gli occhi.

- Trig.
- Mh?
- Tell me a story.
- Che tipo di storia? Non chiedermi di rivangare le vecchie storie di me, tuo padre e tuo zio perchè te le ho raccontate talmente tanto spesso che...
- No. Voglio qualcosa di diverso stanotte. Qualcosa che mi faccia ricordare...
- A cosa?
- A quello che è successo. 
- Winger, ascolta, non serve rivangare. A quanto hanno detto i medici è normale che non ricordi, quindi fare sforzi inutili non serve a niente, davvero.
- Don't care.
- Testa dura. Ok, allora decidi cosa vuoi.

Ci pensò a lungo. Lui nel frattempo spense il proiettore olografico che la Khan aveva fissato sul soffitto della stanza con il telecomando e ripose tutto nel cassetto del comodino su cui ancora erano brillanti e serrati i boccioli di rose rosse che le aveva portato lui: i miracoli della scienza. Rimuginò tanto, fissando la parete che tornava bianca, su cui gli occhi vedevano ancora i tracciati di quelle plance in cui era cresciuta, che aveva abbandonato per pochissimo tempo da quando aveva inseguito il sogno di diventare un pilota vero. Si massaggiò gli occhi pesanti, le palpebre gonfie. Sospirò cercando di stiracchiarsi, ma ogni movimento costava fatica e dolore. In un mugugno sofferto tornò a guardarlo. Cooter Jackson si era accomodato al suo fianco, con la poltrona comoda. Gli mancavano le sigarette e si vedeva da come giocherellava con una penna, tra le dita. Sorrise, aveva finalmente chiaro quello che desiderava da lui. Non si scompose più di tanto ma fece in modo di abbassare il letto, così da stare stesa. Per una notte aveva deciso che avrebbe riposato sul serio, come le aveva detto di fare Adrian, troppo evidente quanto passasse le nottate ad esercitarsi con i movimenti che le erano più familiari, necessari per pilotare le sue adorate navi. Aveva deciso, sì.

- Allora, Winger? Deciso?
- Yes...
- So?
- Tell me pirate stories...

sabato 19 gennaio 2013

I'll sleep when I'm dead...

Bloccata in un letto d'ospedale, nel cuore del Core, lasciava scorrere il tempo fino ad annullarsi, in un conto che perdeva il senso delle cose. Scandiva le giornate a furia di medicine, visite dei dottorini in camice bianco e accento da fighetti, di infermieri dispotici e tiranni. La mente ritrovava elasticità, allenando la fantasia a cercare di ricomporre i pezzi infranti della memoria. Gli unici sprazzi di una novità concreta erano i visi delle persone conosciute. Si alternavano, con improvvisa ed inattesa casualità, spezzando la monotonia della giornata e il perdersi dello sguardo sui propri tracciati. Visi provati, visi felici, sguardi che non trovavano la verità, che nascondevano troppi pesi di cui però non cercava di sondare lo spessore. 
Sapeva che non volevano preoccuparla, sapeva ma non voleva arrendersi. Uno specchio portato per favore, la vista di quelle cicatrici sul petto senza però riuscire a provare nulla, nemmeno orrore. Erano punti fatti con una perfezione irreale, i lembi di pelle perfettamente allineati, sapeva che non avrebbero lasciato altro se non una linea sottile, appena visibile. Non le piaceva. Nonostante tutto, il pensiero che quella perfezione veniva dalla sua assoluta e completa immobilità, dalla sua morte, non la conciliava affatto.  
Anya era a sole quattro stanze più in là, e lei doveva sopportare sforzi disumani per avere un contatto, una sfida quotidiana che però la Korolevita vinceva ogni giorno, ogni attimo, potendosi muovere, per quanto vincolata ad una sedia, con una certa libertà. La guardava con ammirazione e un pizzico di invidia figlia della frustrazione. La mente tornava via via più lucida a mano a mano che le infermiere diminuivano i dosaggi di tranquillanti, ancora elevati a causa di quel brutto carattere che riusciva sempre ad emergere, nonostante lo stato indecoroso in cui stava. Non era cambiata. Almeno, non si vedeva cambiata, nonostante l'evento ineluttabile che era stato la sua morte. Anya era sciupata, ma non aveva perso la sua naturale bellezza e per quanto riguardava lei, non le interessava nemmeno. Non si era mai vista bella, specchiarsi e notare le borse, le guance scavate, gli occhi cerchiati non le importava minimamente. Non a tutti viene concessa una seconda possibilità, ancor più se quella possibilità già se l'era presa la sorella: 2 %.
C'erano momenti in cui il dolore risultava davvero insostenibile, che nemmeno i medicinali potevano zittire la fatica, lo sforzo, la ripresa regolare di quelle sensazioni, buone e cattive che fossero. Il corpo mano a mano guadagnava in vitalità, il calore corporeo tenuto sotto stretta osservazione, così come quel cuore rattoppato. L'idea di avere in petto qualcosa che batteva per pura meccanica la faceva concentrare su tutt'altre sensazioni. Immaginando la propria sagoma distesa su di un letto e un meccanico a sostituire i pezzi, qualcosa di assurdo, che però non era poi così lontana dalla verità. A tratti c'era quella strana voglia di lasciarsi andare, di smettere di combattere e tornare a dormire, soppiantata da una voglia cocente di vendetta, quando finalmente le hanno portato il suo c-pad e ha avuto uno spiraglio, una stretta finestrella sul mondo.
I tracolli emotivi erano qualcosa che temerva più della morte stessa, e ci era finita, più volte, con tutte le scarpe. Con Anya, sovrastata dalla coincidenza di un messaggio vocale da Vergil, con la lettura di quei text che non ricordava minimamente di aver mandato, ma che rivelavano l'ineluttabile verità di una scheggia di vissuto, uno spicchio ampio, andato completamente perso. L'emozione le strozzava la gola, facendo impazzire le macchine che richiamavano ogni maledetta volta il personale medico all'appello e non aveva la forza nè le energie per scacciare le inopportune presenze in blu e verde. Le bruciava nello sguardo, la voglia di mandare a farsi fottere tutti. Eppure lì doveva stare, del tutto dipendente, ma determinata ad uscire dal buco nero in cui era sprofondata. La spinta iniziale gliel'hanno data proprio le persone a cui era più affezionata, la sorella, il Capitano, Trigger. La sua comparsa oltre la porta, con un bel mazzo di rose modificate, sintetiche, le aveva strappato un sorriso come raramente riusciva a manifestare. Le colarono lacrime di sollievo, perchè in fondo aveva avuto una seconda possibilità, e il vecchio era ancora lì, a tirarla su di morale, a bistrattarla e provocarla come se nulla fosse. 
Piangere sul latte versato non era da loro. Cominciò ad incaponirsi, a rispondere ai messaggi, pur temendo la verità di poter essere stata tradita, diffidando di chiunque non fosse semplicemente il suo equipaggio, la sua famiglia. Nonostante messaggi da altri, non rispose a nessuno, seppur si trovò a volte con la reale e concreta voglia di sentire la voce di altre persone, oltre a quelle fisse in ospedale. La voglia di chiamare il fratello, per poi demordere subito dopo nella paura di non riuscire a sostenere il peso di quella conversazione, seppur quel unico messaggio le mise addosso inquietudine, costringendola ad un pianto solitario mentre gli rispondeva, a voce, lasciandogli sentire che no, non lo odiava affatto. E poi Ritter. Era a New London, con Cecilia. La cosa la riempiva di calore, tranquillità, ben lungi anche solo dal credere che la storia fosse una balla, come tante altre aveva imbastito il Capitano per proteggerla dalla verità. Vero è che tanto, prima o poi, sarebbe uscita da lì e la verità se la sarebbe presa, con le cattive.
I giorni si riempivano di piccoli miglioramenti, troppo lenti per i suoi gusti ma incoraggianti per i medici. Un giorno, o una notte,-  non lo sapeva davvero discernere senza guardare il pad - si ritrovò una Declan Khan fascinosamente raffinata alla porta. Uno scatolone, lei che con eleganza sempre composta, mai fuori posto, mai eccessiva, si divertiva ad arrampicarsi sul suo tavolo. Gli occhi che la seguivano con ansia, temendo che scivolasse: sarebbe stato un guai. Quella donna aveva l'abilità sconosciuta di rapirne i sensi. Era tutto quello che lei non sarebbe mai potuta essere: controllata oltre ogni comprensione, ricercata e signorile, posata e impassibile, nonostante fosse determinata e ambiziosa, una donna d'un pezzo. La sua perfetta antitesi, vestita di seta argento e azzurro, che faceva vibrare i suoi occhi in maniera quasi irreale, rendendo la carnagione più chiara e diafana, i capelli risaltare in un contrasto che quasi faceva male alla vista. Il debito con lei era oltre lo scibile. Sapeva non solo di doverle ringraziamenti per le visite, i 'giocattoli' ma per la vita stessa e un debito simile è sempre qualcosa che lascia un sapore strano in bocca. La vide armeggiare con la console olografica, attaccarla al soffitto e poi scendere su sua richiesta insistente, fino a porgere una cloche troppo pesante per le sue braccia svuotate. Un simulatore di volo. Con il telecomando la donna cambiò quello che le circondava fino a scegliere una plancia tanto familiare da smuovere a commozione. Con degli sforzi oltre il narrabile, riuscì istintivamente a spostare le dita sui tasti proiettati, attivare i motori con la cloche che le tremava in grembo. Una realtà virtuale a cui aggrapparsi, per cercare di non impazzire ed essere succube di pareti troppo bianche e visi troppo finti. I ringraziamenti non trovavano voce se non i qualche sorriso, ma la sua sincerità riuscì in qualche modo a spiegare quello che sentiva, calando la mano con un bel bluff tra le dita, nemmeno una coppia. Non aveva una mano vincente, Molly Cox, aveva solo sè stessa e la propria opinione delle cose.

- Il controllo salva la vita.
- Anche l'istinto.
- L'istinto è quella cosa che fa correre la preda più veloce diritto davanti a sè nella speranza di seminare la tigre, il controllo ti fa essere la tigre.

Continuava a ripeterselo nella testa anche dopo che lei se n'era andata. Aveva ammesso che il suo era il ricordo più fulgido del risveglio che poteva rievocare. Bellissima, inquietante, immensa. Non glielo poteva negare, non dopo tutto quello che era stato fatto per lei, nonostante ancora non conoscesse i termini di quello scambio. Si era informata: il rebirth, come lo chiamano, costa un occhio della testa, se non anche tutti gli organi interni. Il ronzare di una domanda continuava a farla impazzire:

- Why?
Non sapeva darsi una spiegazione: la corsa non poteva essere l'unica vera scusa, non bastava. Il 'Verse era pieno di piloti, forse meno bravi di lei, ma pur sempre abili corridori. E allora, perchè?

- Se i dottori le dicono di riposare, lei non gli dia retta

Aveva qualcosa di diverso, un'espressione che non riusciva a capire davvero. Non aveva la forza di guardarla, consapevole di quale strano magnetismo esercitasse su di lei.

- Com'è che si dice nel 'Rim? I'll sleep when I'm dead...

Aveva ragione. Ma lei era già morta. O meglio, lo era stata. Un attimo prima la sua presenza, composta ed elegante, un attimo dopo il silenzio e una plancia proiettata sulle pareti e attorno, negli spazi, a concederle il lusso di schiantarsi con una Firefly senza alzare migliaia di dollari di danni. Passò la notte, a riprendere la mano, tentando e ritentando manovre che ricordava a menadito ma che il corpo non riusciva a sostenere. Aveva maledettamente ragione:

Dormirò quando sarò morta, di nuovo.

mercoledì 16 gennaio 2013

Confortably numb...


All'inizio non ci fu che caos. Era solo confusione, non c'era nulla di ordinato. E' stato come svegliarsi di soprassalto da un incubo senza ritorno. L'unica cosa che ricordava con certezza era quella macchia rossa. Non poteva sapere, che l'ultimo colore visto mentre moriva era un rosso, non così intenso, ma simile. Non poteva sapere. Eppure il rosso che vide spalancando gli occhi e agognando un respiro era familiare, così come gli occhi chiari, i tratti annebbiati di un viso femminile, la voce. Le braccia sottili di Declan Khan la sostenevano dal liquido vitale che l'aveva riportata alla luce, come un bambino cavato da un grembo metallico, incubato. Sapeva che lei era l'unico appiglio reale, un istinto radicato nell'inconscio, qualcosa a cui doversi aggrappare con la disperazione di un salto, un tuffo verso il vuoto. Le luci attorno erano sfarfallanti, c'erano scie di scintille ovunque, l'universo sembrava essersi condensato in un'unica grande stanza, e poi vide lui. C'erano stelle che calavano dai suoi occhi, colate di luce pura e intensa che vibrava, fredda, da pozzi neri e arrossati. Lo vide e lo fissò. Riconobbe in lui un ricordo, un ritaglio di vita quotidiana, qualcosa che l'aveva emozionata. C'era caldo che si spandeva da dentro, c'erano odori che riempivano la bocca e la mente. Era una tempesta di sensazioni: vedeva con l'olfatto, sentiva con il gusto, assaporava con l'udito, tutto confuso, intrecciato mentre il cervello cercava di incastrare i pezzi, così come dovevano andare. Aveva subito uno shock importante: era morta.

Tutto si spense. Un puntino verde che si ritraeva al centro dello schermo nero, buio. Respirare richiedeva impegno come mai prima d'ora aveva sentito di dover fare. Poi, nel cervello, presero a pulsare quelle onde. Su e giù, su e giù. La voce, la luce. La voce che parlava elettrica, metallica, crepitava attorno in uno strano eco, ma poteva venire da dentro. Risate, sorrisi, mille volti che si accavallavano. Il suono di un cigolio, aprendo gli occhi il mondo vortivaca, girava, crollava, eppure il corpo non si muoveva. Era come essere sprofondati dentro di sè, scollegata completamente da braccia e gambe, vincolata solo a quel pulsare che gonfiava le tempie. Vide visi sconosciuti, volti dietro mascherine imperturbabili, che non davano niente in più che semplici segnali, automatici. Non c'era il riflesso azzurro di quegli occhi spiritati, brucianti di onnipotenza e passione, non più il vorticare lussureggiante di rossi capelli attorno al suo viso, nemmeno l'odore. Era sparita, come un fantasma diafano, impalpabile. Eppure, lei, la macchia rossa dei suoi pensieri era presente ovunque, gli stemmi della Blue Sun continuavano a susseguirsi e apparire in ogni dove, suggerendole altri stimoli. Ogni cosa era un flash, anche solo una macchia di colore più acceso scatenava una risposta netta nel cervello, talmente sovraccarico da spegnersi sovente, senza poterne reggerne il peso. La trasportarono nella sua stanza, al terzo piano dell'Ospedale a CapCity, la culla di tutto quello che odiava.

Arenata, rimase immobile senza percepire nulla che non fosse l'ovattato annichilirsi delle pulsioni. Le medicine gocciolavano direttamente in vena, ogni suo battito, ogni suo respiro, sapientemente registrati, valutati e monitorati; tradotti in rumori che penetravano nel cervello, fino ad annullarsi a vicenda. Le voci dei medici facevano breccia nella nebbia, poche informazioni, nulla di realmente utile giacchè non riusciva a rievocare nulla di troppo recente. Solo Lei, il suo sorriso, il tatuaggio nero del Drago sulla guancia. Poi comparve ancora quella voce. La stessa voce che crepitava attorno, la notte in cui nacque di nuovo. Quinn era lì, come una strana apparizione. Biondissima, con un caleidoscopio di colori che le vorticava attorno, rendendola ancora più irreale, vestita da Corer. Però era lei. Lei era lì, e lo era anche Molly. Negli occhi azzurri dell'ingegnere vide riflesso qualcosa che non riuscì a capire, ma che ritrovò nello sguardo di tutti. Un misto, strano, qualcosa che alla fine si ritrovò a considerare semplicemente pietà, paura, repulsione e in parte confusione. C'erano sprazzi vivaci di un giallo felice, come il sole, ma il resto era cupo, qualcosa di lontano e viscerale. Nessuno aveva risposte per lei, e alla fine si abbandonò all'idea di smettere di chiedere. Non aveva niente. Le piastrine, il cappello, il c-pad: ma soprattutto non ricordava nulla della propria morte. Costrinse l'infermiera a dirle com'era morta, perchè chiaramente, per quanto ad occhi chiusi sognasse, non c'era nemmeno una traccia di concreto. Tutti i sogni si accavallavano con il reale, col passato, col vissuto. Era il suo modo di ritornare al passo e soprattutto, non sapeva nemmeno tenere il conto dei giorni.

Chiedere diventava impossibile: lottare con forza per riuscire a guadagnare fiato era l'unica cosa che le importava davvero. Riprendere possesso del proprio corpo, scacciare quel freddo che pungeva da dentro e che si faceva più denso, quando dalla porta entravano solo altri camici e nessuna faccia amica. Il tempo scorreva, impietoso, e lei non aveva la forza di allungare le dita e afferrarlo, perchè chiudere gli occhi poteva significare farlo per un respiro, un battito d'ali di una farfalla, o lasciarsi cadere in un vuoto privo di peso. La mente viaggiava a Zero-G e non poteva farci niente. A volte si svegliava di soprassalto, senza sapere se fosse notte o giorno, svegliata dal suo stesso cuore, dal *bip* irregolare e acuto che penetrava la fitta coltre di ricordi che si buttava addosso. Il freddo tocco di guanti, i controlli di routine. La vita che veniva scandita da una puntura, una dose, un esercizio. Niente più alba nè tramonto, niente più spazio e stelle. Il soffitto di una stanza bagnato dalle proiezioni del suo stesso io. La sua vita, disegnata da onde cerebrali e tracciati cardiaci. L'unica cosa che le rimaneva era pensare e anche quello, a volte, diventava troppo. La terra non era per lei, eppure non aveva ali se non nei sogni. Spezzata, frustrata e costretta, non faceva altro che suggere ogni singola goccia d'odio per chi l'aveva ridotta così, un'entità astratta senza viso, ma con una pistola lucida che le sparava ogni notte, due colpi: uno alla clavicola sinistra e l'altro al cuore. Non c'erano urla nel sonno, non c'era lotta. Le droghe la tenevano buona, ma in fondo, nel vero profondo, si alimentava di vendetta.

Un passo alla volta, con tutta la determinazione del mondo. Sapeva che doveva uscire, per quanto confortante fosse quel torpore, non sentire, non soffrire: la vita è molto di più. Doveva tornare a vivere davvero. Lo doveva a sè stessa, prima di tutto e poi a loro.

Ma nei sogni, non c'è nessuno?

Hello,
Is there anybody in there?
Just nod if you can hear me
Is there anyone home?

Come on
Now
I hear you're feeling down
I can ease your pain
Get you on your feet again

Relax
I'll need some information first
Just the basic facts
Can you show me where it hurts?

There is no pain you are receding
A distant ship's smoke on the horizon
You are only coming through in waves
Your lips move
But I can't hear what you're saying

When I was a child I had a fever
My hands felt just like
Two balloons
Now I've got that feeling once again
I can't explain
You would not understand
This is not how I am

I... Have become comfortably numb

O.K.
Just a little pin prick
There'll be no more aaaaaaaah!
But you may feel a little sick

Can you stand up?
I do believe it's working
Good
That'll keep you going through the show
Come on
It's time to go

There is no pain you are receding
A distant ship's smoke on the horizon
You are only coming through in waves
Your lips move
But I can't hear what you're saying

When I was a child
I caught a fleeting glimpse
Out of the corner of my eye

I turned to look but it was gone
I cannot put my finger on it now
The child is grown
The dream is gone
I... Have become comfortably numb
(Comfortably Numb - Pink Floyd)

giovedì 10 gennaio 2013

The end of this chapter...

Quando Trigger bussò alla sua cabina Molly stava riponendo nella valigia di kevlar i suoi effetti. La tuta era ripiegata in ordine, assieme al casco, depositato nel foam nero. La Neocolt PK12 infilata in uno scomparto, al sicuro. Si stava slacciando il c-pad, lo strap del cinturino soffocò i primi rintocchi.

- Avanti!
- Winger?
- Trig?
- Che cazzo fai?
- Ah?
- Non vorrai andare, spero.
- Perchè no? Sono il Primo Ufficiale, sono stata convocata, la mia nave è sotto fermo e devo capire perchè. Non vedo cosa ci sia di strano nell'andare.

Mentra rivolgeva gli occhi a Trigger, ripose anche il c-pad nella valigetta. Si alzò, scalza, portando le mani verso il piccolo tavolo su cui era posato anche l'holodeck, lo raccolse. Spense e chiuse il display, in un tonfo leggero.

- Se pensi che sia una cosa tranquilla perchè stai mettendo via le tue cose?
- Perchè se dovesse essere come pensi, tu le porterai dal Capitano.
- Io? Sei matta, io non me ne vado senza di te.
- Se non dovessimo tornare, se i sospetti di Anya sono confermati, tu e gli altri raggiungerete il resto dell'equipaggio. Non è una richiesta, Trigger, è l'ordine del tuo primo ufficiale.
- Me ne fotto dei tuoi ordini Winger. Ho già perso tuo zio con i suoi fottuti ordini, non permetterò a nessuno di...
- Non lo sai. 

Appoggiò uno strato di foam e poi l'holodeck, così che non venisse danneggiato con lo sballottare della valigia. Richiuse tutto con i fermi e si alzò di nuovo.

- Ascolta, io devo andare. Non ho motivo di pensare che lei mi farebbe del male.
- Vi ha traditi, Molly, questo te lo ricordi sì?
- Non chiamarmi Molly.
- ...
- E comunque sia non ci sono prove. Fino a che non sarà lei a dirmi che ci ha traditi, che ci ha venduti, continuerò a non crederlo plausibile. E se anche fosse... pazienza. L'importante è che riusciate a portare a casa la Monkey. E se proprio dovesse andar male...
- Winger...

Lei si voltò, gli occhi andarono diritti sulle piastrine, che ciondolavano da uno degli scaffali di metallo nella sua stanza. Allungò la mano, staccandole dolcemente. Le strinse e si voltò. Ripercorse la lunghezza della sua cabina, tendendo la mano a cercare quella rugosa e avvizzita del proprio co-pilota. 

- Dai le mie cose a Vergil e digli... digli che mi dispiace, ok?
- Wing...
- Trig, ti prego. Se davvero voi avete ragione, allora ho bisogno che tu mi prometta che farai questa cosa per me. Se ho ragione io, pazienza, comunque saprà che ci tengo.

Il vecchio pilota ne aveva passate tante, nella sua vita. Fratelli, amici, moglie e figli, tutti persi per questo e quel motivo, per una guerra troppo stupida, troppo esigente. Adesso, si trovava nella stessa condizione di tanti anni prima, a venire scacciato dal proprio Capitano, o quantomeno da chi ne faceva le funzioni. E, ironia della sorte, la persona che gli stava dando ordini adesso era la nipote di chi glieli aveva dati all'epoca. Scansò la mano con le piastrine e avanzò di un passo. Lei lo guardava, con quella determinazione che sapeva tanto di suo padre, per quanto fosse cocciuta come suo zio. L'afferrò, bruscamente, ruvido, stringendola in un abbraccio sentito, pesante. Lei ci mise un attimo, prima di ricambiarne la stretta.

- Ti voglio bene.
- ...

Lui non lo sapeva dire. Lo fece lei per entrambi. La stretta la soffocava. Era troppo intensa per farla stare tranquilla, eppure doveva esserlo. Non aveva motivo di dubitare. Una pacchetta sulla spalla del suo co-pilota prima di ironizzare con un:

- Se non mi molli, non ci arrivo dalla Head perchè mi ammazzi prima te.
- Stupida..

Lei rise, di un sorriso talmente sereno che non si poteva dubitare non sarebbe tornata. Si assicurò che la valigetta fosse chiusa e consegnò la piccola chiave all'uomo di Shijie. 

- Trig, mi raccomando. Tu e gli altri adesso che noi andiamo, lasciate la Monkey, chiudi con i codici e andatevene a mangiare. Dammi un paio d'ore, non di più. Quanto ci vorrà mai a spiegarci perchè cavolo siamo sotto controllo?
- Due ore. 
- Dopo... cercate un passaggio per Greenfield e andatevene. Non chiedere informazioni, non ficcanasare in giro. Promettimelo.
- Te lo prometto.
- Bravo ragazzo.
- Dick head.
- AHAHAHAHA!

Rise, ancora, stavolta in maniera più da lei, sguaiata. Si controllò. Il cinturone era ben fornito, il coltello nello stivale, tutto quello che le poteva servire era lì, a portata di mano. Si grattò la guancia, tornando a guardare l'uomo che continuava a ciondolare, con le sue piastrine in una mano e la valigia nell'altra. 

- Mbhè?
- Se non torni io l'ammazzo.
- Ancora?!? Non è che me la stai chiamando? Cazzo, guarda che porta sfiga eh!
- Pfffffffffffffff!
- Dai, vai a vedere se serve qualcosa ad Anya. Io vado a cavarmi sto dente, ma prima devo pisciare.

L'uomo non riuscì a ridere della storia. Si voltò, cupo in volto, lasciandola nella sua cabina. Quando Trigger fu fuori, lei finalmente riuscì a guardarsi attorno, come se stesse partendo per un viaggio, abbandonando la propria casa. Era uno sguardo lucido. Le sfuggì un sospiro, qualcosa di estremamente intenso, pregno di emozioni soffocate in petto. Si volse, guardò il proprio riflesso in uno specchio fissato alla parete. Si specchiò fino a che non perse ogni tratto docile o malinconico in virtù del fastidio e dell'incomprensione. La Monkey sotto sequestro, il Capitano lontano, per fortuna. Era l'unica cosa che le dava sollievo: nè Joe Vergil erano con loro. Gli unici, nella sua testa, che rischiavano davvero qualcosa con Electra. Non poteva sapere, che quell'occhiata sarebbe stata davvero l'ultimo saluto alla propria cabina. 

- Vaffanculo. La mia bella nave non se ne starà un giorno in più in questo buco di merda. Pirati del cazzo. Skyplex del cazzo. Carnival Mistress di sta minchia.

Si diede forza, inveendo con piacevoli sonorità del proprio pianeta. Sorrise, annuì a sè stessa, in un certo qual modo convincendosi che si sarebbe tutto risolto, in un modo o nell'altro. E comunque, sapeva che Trigger l'avrebbe accontentata, nonostante tutto. Ci sperava. Perchè in fondo, in quell'holodeck aveva stipato i messaggi registrati molto tempo addietro, quando credeva di stare morendo a causa del vaccino che aveva dovuto fare per andare su Shijie. Ricordava ancora quando finì di registrarli. Chiuse gli occhi, tirò un gran sospiro.
"Trig. Dovessi morire, voglio che tu apra il mio holodeck, la password è sempre la stessa. C'è un file, sul desktop. Un piccolo programma. Dai il computer agli altri, dì loro di pronunciare i loro nomi davanti allo schermo e poi potranno accedere ai file privati. C'è anche per te." 
Si ricordava che lui la mandò affanculo, che non voleva saperne niente di quelle cazzate, che nessuno sarebbe morto e che stava facendo una tragedia di un niente. Ed era vero. Stava facendo una tragedia di un niente, e questa volta, mentre era lui a fare la tragedia, lei gli aveva rinfacciato che era un niente. Ridacchiò, scompigliando i capelli prese in mano il pacchetto stropicciato. Si accese una sigaretta, guardandosi attorno un'ultima volta. Gli occhi chiari puntarono un foglietto. Frasi tratte da  una vecchia canzone di chi, non lo ricordava nemmeno più. Lesse...

I gave you my time
I gave you my whole life
I gave you my love, every dime..
They told me it was a crime

Do you remember?
Did it all go in vain..?

I looked in the light, I sat in your coal mine
The promise they made, I should keep?
Make sure that we would never meet!

I can't remember
The promise I made so deep

Tell me that past times won't die
Tell me that old lies are alive

Across darkened skies, I travelled without a light
I sank in the well, of my mind
Too deep, never to be found

I can't remember..
How could you be so vain?

Tell me that past times won't die
Tell me that old lies are alive
Love that expired too long time ago
Kills me, it thrills me

You have a new love and,
It looks good on you.
I have never wished you dead.. yet!

You can now have all the things
I could never give to you,
Look out the window: "C'est moi!"

I'm sorry, I am here
I'm not sure if it should bring you fear?
I whisper in your ear
Why is he in here?

While you are sleeping, I steal your earring
Light you one candle, this anger I handle..!

They said, I won't find you, but now, I'm beside you
I'm not all, that stable,
You should, know by now that you are mine!

Tell me that past times won't die
Tell me that old lies are alive

I tell you that past times won't die
I tell you that old lies are alive
Love due to expire too long time ago
Kills me, it will kill you too

Past times wont die
I tell you old lies are alive
Hate due to expire too long time ago
Kill me, please kill me before

I tell you that past times won't die
(Sonata Artica - The end of this chapter)