sabato 19 gennaio 2013

I'll sleep when I'm dead...

Bloccata in un letto d'ospedale, nel cuore del Core, lasciava scorrere il tempo fino ad annullarsi, in un conto che perdeva il senso delle cose. Scandiva le giornate a furia di medicine, visite dei dottorini in camice bianco e accento da fighetti, di infermieri dispotici e tiranni. La mente ritrovava elasticità, allenando la fantasia a cercare di ricomporre i pezzi infranti della memoria. Gli unici sprazzi di una novità concreta erano i visi delle persone conosciute. Si alternavano, con improvvisa ed inattesa casualità, spezzando la monotonia della giornata e il perdersi dello sguardo sui propri tracciati. Visi provati, visi felici, sguardi che non trovavano la verità, che nascondevano troppi pesi di cui però non cercava di sondare lo spessore. 
Sapeva che non volevano preoccuparla, sapeva ma non voleva arrendersi. Uno specchio portato per favore, la vista di quelle cicatrici sul petto senza però riuscire a provare nulla, nemmeno orrore. Erano punti fatti con una perfezione irreale, i lembi di pelle perfettamente allineati, sapeva che non avrebbero lasciato altro se non una linea sottile, appena visibile. Non le piaceva. Nonostante tutto, il pensiero che quella perfezione veniva dalla sua assoluta e completa immobilità, dalla sua morte, non la conciliava affatto.  
Anya era a sole quattro stanze più in là, e lei doveva sopportare sforzi disumani per avere un contatto, una sfida quotidiana che però la Korolevita vinceva ogni giorno, ogni attimo, potendosi muovere, per quanto vincolata ad una sedia, con una certa libertà. La guardava con ammirazione e un pizzico di invidia figlia della frustrazione. La mente tornava via via più lucida a mano a mano che le infermiere diminuivano i dosaggi di tranquillanti, ancora elevati a causa di quel brutto carattere che riusciva sempre ad emergere, nonostante lo stato indecoroso in cui stava. Non era cambiata. Almeno, non si vedeva cambiata, nonostante l'evento ineluttabile che era stato la sua morte. Anya era sciupata, ma non aveva perso la sua naturale bellezza e per quanto riguardava lei, non le interessava nemmeno. Non si era mai vista bella, specchiarsi e notare le borse, le guance scavate, gli occhi cerchiati non le importava minimamente. Non a tutti viene concessa una seconda possibilità, ancor più se quella possibilità già se l'era presa la sorella: 2 %.
C'erano momenti in cui il dolore risultava davvero insostenibile, che nemmeno i medicinali potevano zittire la fatica, lo sforzo, la ripresa regolare di quelle sensazioni, buone e cattive che fossero. Il corpo mano a mano guadagnava in vitalità, il calore corporeo tenuto sotto stretta osservazione, così come quel cuore rattoppato. L'idea di avere in petto qualcosa che batteva per pura meccanica la faceva concentrare su tutt'altre sensazioni. Immaginando la propria sagoma distesa su di un letto e un meccanico a sostituire i pezzi, qualcosa di assurdo, che però non era poi così lontana dalla verità. A tratti c'era quella strana voglia di lasciarsi andare, di smettere di combattere e tornare a dormire, soppiantata da una voglia cocente di vendetta, quando finalmente le hanno portato il suo c-pad e ha avuto uno spiraglio, una stretta finestrella sul mondo.
I tracolli emotivi erano qualcosa che temerva più della morte stessa, e ci era finita, più volte, con tutte le scarpe. Con Anya, sovrastata dalla coincidenza di un messaggio vocale da Vergil, con la lettura di quei text che non ricordava minimamente di aver mandato, ma che rivelavano l'ineluttabile verità di una scheggia di vissuto, uno spicchio ampio, andato completamente perso. L'emozione le strozzava la gola, facendo impazzire le macchine che richiamavano ogni maledetta volta il personale medico all'appello e non aveva la forza nè le energie per scacciare le inopportune presenze in blu e verde. Le bruciava nello sguardo, la voglia di mandare a farsi fottere tutti. Eppure lì doveva stare, del tutto dipendente, ma determinata ad uscire dal buco nero in cui era sprofondata. La spinta iniziale gliel'hanno data proprio le persone a cui era più affezionata, la sorella, il Capitano, Trigger. La sua comparsa oltre la porta, con un bel mazzo di rose modificate, sintetiche, le aveva strappato un sorriso come raramente riusciva a manifestare. Le colarono lacrime di sollievo, perchè in fondo aveva avuto una seconda possibilità, e il vecchio era ancora lì, a tirarla su di morale, a bistrattarla e provocarla come se nulla fosse. 
Piangere sul latte versato non era da loro. Cominciò ad incaponirsi, a rispondere ai messaggi, pur temendo la verità di poter essere stata tradita, diffidando di chiunque non fosse semplicemente il suo equipaggio, la sua famiglia. Nonostante messaggi da altri, non rispose a nessuno, seppur si trovò a volte con la reale e concreta voglia di sentire la voce di altre persone, oltre a quelle fisse in ospedale. La voglia di chiamare il fratello, per poi demordere subito dopo nella paura di non riuscire a sostenere il peso di quella conversazione, seppur quel unico messaggio le mise addosso inquietudine, costringendola ad un pianto solitario mentre gli rispondeva, a voce, lasciandogli sentire che no, non lo odiava affatto. E poi Ritter. Era a New London, con Cecilia. La cosa la riempiva di calore, tranquillità, ben lungi anche solo dal credere che la storia fosse una balla, come tante altre aveva imbastito il Capitano per proteggerla dalla verità. Vero è che tanto, prima o poi, sarebbe uscita da lì e la verità se la sarebbe presa, con le cattive.
I giorni si riempivano di piccoli miglioramenti, troppo lenti per i suoi gusti ma incoraggianti per i medici. Un giorno, o una notte,-  non lo sapeva davvero discernere senza guardare il pad - si ritrovò una Declan Khan fascinosamente raffinata alla porta. Uno scatolone, lei che con eleganza sempre composta, mai fuori posto, mai eccessiva, si divertiva ad arrampicarsi sul suo tavolo. Gli occhi che la seguivano con ansia, temendo che scivolasse: sarebbe stato un guai. Quella donna aveva l'abilità sconosciuta di rapirne i sensi. Era tutto quello che lei non sarebbe mai potuta essere: controllata oltre ogni comprensione, ricercata e signorile, posata e impassibile, nonostante fosse determinata e ambiziosa, una donna d'un pezzo. La sua perfetta antitesi, vestita di seta argento e azzurro, che faceva vibrare i suoi occhi in maniera quasi irreale, rendendo la carnagione più chiara e diafana, i capelli risaltare in un contrasto che quasi faceva male alla vista. Il debito con lei era oltre lo scibile. Sapeva non solo di doverle ringraziamenti per le visite, i 'giocattoli' ma per la vita stessa e un debito simile è sempre qualcosa che lascia un sapore strano in bocca. La vide armeggiare con la console olografica, attaccarla al soffitto e poi scendere su sua richiesta insistente, fino a porgere una cloche troppo pesante per le sue braccia svuotate. Un simulatore di volo. Con il telecomando la donna cambiò quello che le circondava fino a scegliere una plancia tanto familiare da smuovere a commozione. Con degli sforzi oltre il narrabile, riuscì istintivamente a spostare le dita sui tasti proiettati, attivare i motori con la cloche che le tremava in grembo. Una realtà virtuale a cui aggrapparsi, per cercare di non impazzire ed essere succube di pareti troppo bianche e visi troppo finti. I ringraziamenti non trovavano voce se non i qualche sorriso, ma la sua sincerità riuscì in qualche modo a spiegare quello che sentiva, calando la mano con un bel bluff tra le dita, nemmeno una coppia. Non aveva una mano vincente, Molly Cox, aveva solo sè stessa e la propria opinione delle cose.

- Il controllo salva la vita.
- Anche l'istinto.
- L'istinto è quella cosa che fa correre la preda più veloce diritto davanti a sè nella speranza di seminare la tigre, il controllo ti fa essere la tigre.

Continuava a ripeterselo nella testa anche dopo che lei se n'era andata. Aveva ammesso che il suo era il ricordo più fulgido del risveglio che poteva rievocare. Bellissima, inquietante, immensa. Non glielo poteva negare, non dopo tutto quello che era stato fatto per lei, nonostante ancora non conoscesse i termini di quello scambio. Si era informata: il rebirth, come lo chiamano, costa un occhio della testa, se non anche tutti gli organi interni. Il ronzare di una domanda continuava a farla impazzire:

- Why?
Non sapeva darsi una spiegazione: la corsa non poteva essere l'unica vera scusa, non bastava. Il 'Verse era pieno di piloti, forse meno bravi di lei, ma pur sempre abili corridori. E allora, perchè?

- Se i dottori le dicono di riposare, lei non gli dia retta

Aveva qualcosa di diverso, un'espressione che non riusciva a capire davvero. Non aveva la forza di guardarla, consapevole di quale strano magnetismo esercitasse su di lei.

- Com'è che si dice nel 'Rim? I'll sleep when I'm dead...

Aveva ragione. Ma lei era già morta. O meglio, lo era stata. Un attimo prima la sua presenza, composta ed elegante, un attimo dopo il silenzio e una plancia proiettata sulle pareti e attorno, negli spazi, a concederle il lusso di schiantarsi con una Firefly senza alzare migliaia di dollari di danni. Passò la notte, a riprendere la mano, tentando e ritentando manovre che ricordava a menadito ma che il corpo non riusciva a sostenere. Aveva maledettamente ragione:

Dormirò quando sarò morta, di nuovo.