domenica 23 giugno 2013

Horyzon, June 2515

Orientarsi in casa Krushenko non era difficile. Nonostante fuori fosse ancora buio, le luci notturne che spezzavano l’oscurità permettevano di destreggiarsi facilmente, distinguere gli ostacoli e così, evitare anche di finire per svegliare la bella addormentata. Secondo il c-pad, quando è crollata a dormire mezza sbronza al fianco della sorella, era l’una del mattino. Tre ore. Non era tanto, ma bastava a smaltire in parte l’eccesso di rhum nel sangue, e potersi trascinare come uno zombie verso il bagno. Spostarsi dal letto era stata una vera impresa. Quando ha aperto gli occhi si è ritrovata abbracciata alla sorella, in un nodo di lenzuola appiccicose e capelli scomposti. L’ha guardata per qualche tempo, cercando di giudicare se l’avesse disturbata, provando a rievocare dall’abisso dell’ebrezza, gli ultimi dettagli della serata.

Ricordava perfettamente il viaggio fino a lì, il passaggio in quella splendida auto di lusso, sportiva al punto giusto. La cena da quel cinese consigliato da Ritter tanto tempo fa, la passeggiata sul lungomare, le chiacchiere e le confessioni, su come andassero le cose a lei, a Capital City, e Red. Non si era fatta remore a metterla in guardia, lo ricordava bene, e ricordava anche il sollievo di averla sentita dire che non aveva intenzione di intromettersi in alcun modo. I discorsi sui rally, sulla spalla. I vecchi tempi... quelli uscivano sempre fuori. Il ritorno a casa e lo sfogo, tra schifezze e bottiglie, stupide gare e minacciato solletico, poi... il vuoto.

Continuava a sforzarsi di ricordare l’ultima parte ma, ad un certo punto, ha dovuto alzarsi, trascinarsi via da lì. La luce del bagno era fredda, la costrinse a serrare gli occhi in maniera dolorosa, sedersi sulla tazza e massaggiare le tempie, le palpebre appesantite dall’insonnia. Non era mai stata una che apprezzava lo svegliarsi, nè tanto meno il dormire poco, ma ormai ci aveva fatto il callo. Frugò tra le sue cose, raccimolate in un angolo nella stanza. Davanti a sè, sul bordo del lavandino, ad altezza sguardo, pose il flacone di antidolorifici e quello di antibiotici. Un respiro, cercando attorno a sè. Girava la testa, il sapore disgustoso in fondo alla gola, non era nulla paragonato al dolore che si irradiava attorno alla clavicola.

- E’ solo un’infezione. Solo un’infezione.

Cercava di convincersene, mentre assumeva il medicinale prescritto dalla Dottoressa Adler. Quello però non le dava alcun sollievo. Si appoggiò contro la parete, di schiena, la canottiera era madida, sentiva l’odore acre del proprio sudore. Senza fare troppo rumore, decise di infilarsi in doccia, cercare di lenire il fastidio che sentiva pruderle sulla pelle. Lo scroscio dell’acqua, la luce che filtrava da sotto la porta. Cercava di non disturbare Anya, con cui aveva condiviso, ancora una volta, tutti i pesi che le gravavano sul petto. Si infilò direttamente sotto il getto, un brivido, una fitta e poi quiete.

- Temo sia colpa mia.
- Non dirlo nemmeno per scherzo. Lui non ti farebbe mai del male.
- Ho paura per voi, non per me.
- Sai che se succedesse qualcosa a te, ci sarebbero persone pronte a dare la vita pur di proteggerti.
- I know.

Questo pensiero non l’aveva fatta dormire. Persone disposte a morire pur di salvarla. Che persona orribile sarebbe stata se avesse concesso una cosa simile, ancora una volta? Già in passato era successo. Avevano rischiato, qualcuno era morto. Tutto l’odio del mondo sembrava privo di senso, come le bombe, come la guerra. Perdere ogni cosa e vivere nell’odio, senza mai trovare un briciolo di pace. Il pensiero le corse direttamente a Ritter e Sterling, e pregò ardentemente che potessero continuare a stare sicuri, lontani dalla guerra, ancora una volta.

- Non gliene tornerebbe nulla in tasca, a tradirci.

Forse aveva ragione lei. Forse si stava preoccupando per nulla. Da quanto non dormiva decentemente? Da quanto non viveva senza paura o pensieri? Continuava a chiederselo mentre usciva dalla doccia, fresca. La spalla però le faceva male, si fasciò nell’asciugamano di spugna, si guardò allo specchio. Non sembrava nemmeno più lei, magra, con gli aloni attorno agli occhi, lo sguardo spento, distante. Poi le cicatrici. Le percorse con il dito. Ricordava il viso di Mordecai mentre le guardava. Bastava quello per capire che erano ferite mortali. Un brivido la colse al pensiero del cane che accompagnava il medico e da lì la mente saltò diritta a mobilitare spettri più antichi. Cole e quella maledetta giornata agli scontri tra cani. Cole e la guerra. Cole, Dean, Will e la guerra. Trigger e la guerra. Trigger che voleva tornare a combattere e lei, lei che non voleva davvero lasciarglielo fare. Si trovò a sospirare, abbattuta, aggrappata al lavandino mentre l’immagine di un’altra lei si faceva più piccola e distante. Poi il suono di una bussata. Una voce amica, una delle poche nonostante capitasse di vedersi ormai rare volte nel corso di un anno. Sua sorella, che le chiedeva se stava bene.

- Ho fame.
- Preparo il caffè.

Senza rendersene conto era arrivata l’alba. Un nuovo giorno da affrontare, con tanti problemi, sempre più preoccupazioni e mille fantasmi per la testa. Quando aprì la porta, nonostante l’aspetto trasandato di chi si è appena alzato dal letto, vide il sorriso di Anya e riuscì a ricambiare.

- Meno male che ho te.