Orientarsi in casa Krushenko non era
difficile. Nonostante fuori fosse ancora buio, le luci notturne che spezzavano
l’oscurità permettevano di destreggiarsi facilmente, distinguere gli ostacoli e
così, evitare anche di finire per svegliare la bella addormentata. Secondo il
c-pad, quando è crollata a dormire mezza sbronza al fianco della sorella, era
l’una del mattino. Tre ore. Non era tanto, ma bastava a smaltire in parte l’eccesso
di rhum nel sangue, e potersi trascinare come uno zombie verso il bagno. Spostarsi
dal letto era stata una vera impresa. Quando ha aperto gli occhi si è ritrovata
abbracciata alla sorella, in un nodo di lenzuola appiccicose e capelli
scomposti. L’ha guardata per qualche tempo, cercando di giudicare se l’avesse
disturbata, provando a rievocare dall’abisso dell’ebrezza, gli ultimi dettagli
della serata.
Ricordava perfettamente il viaggio fino a lì, il passaggio in quella
splendida auto di lusso, sportiva al punto giusto. La cena da quel cinese
consigliato da Ritter tanto tempo fa, la passeggiata sul lungomare, le
chiacchiere e le confessioni, su come andassero le cose a lei, a Capital
City, e Red. Non si era fatta remore a metterla in guardia, lo
ricordava bene, e ricordava anche il sollievo di averla sentita dire che non
aveva intenzione di intromettersi in alcun modo. I discorsi sui rally, sulla
spalla. I vecchi tempi... quelli uscivano sempre fuori. Il ritorno a casa e lo
sfogo, tra schifezze e bottiglie, stupide gare e minacciato solletico, poi... il
vuoto.
Continuava a sforzarsi di ricordare l’ultima parte ma, ad un certo punto, ha
dovuto alzarsi, trascinarsi via da lì. La luce del bagno era fredda, la
costrinse a serrare gli occhi in maniera dolorosa, sedersi sulla tazza e
massaggiare le tempie, le palpebre appesantite dall’insonnia. Non era mai stata
una che apprezzava lo svegliarsi, nè tanto meno il dormire poco, ma ormai ci
aveva fatto il callo. Frugò tra le sue cose, raccimolate in un angolo nella
stanza. Davanti a sè, sul bordo del lavandino, ad altezza sguardo, pose il
flacone di antidolorifici e quello di antibiotici. Un respiro, cercando attorno
a sè. Girava la testa, il sapore disgustoso in fondo alla gola, non era nulla
paragonato al dolore che si irradiava attorno alla clavicola.
- E’ solo un’infezione. Solo
un’infezione.
Cercava di convincersene, mentre assumeva il medicinale prescritto dalla
Dottoressa Adler. Quello però non le dava alcun sollievo. Si appoggiò
contro la parete, di schiena, la canottiera era madida, sentiva l’odore acre
del proprio sudore. Senza fare troppo rumore, decise di infilarsi in doccia,
cercare di lenire il fastidio che sentiva pruderle sulla pelle. Lo scroscio
dell’acqua, la luce che filtrava da sotto la porta. Cercava di non disturbare Anya,
con cui aveva condiviso, ancora una volta, tutti i pesi che le gravavano sul
petto. Si infilò direttamente sotto il getto, un brivido, una fitta e poi
quiete.
- Temo sia colpa mia.
- Non dirlo nemmeno per
scherzo. Lui non ti farebbe mai del male.
- Ho paura per voi, non per
me.
- Sai che se succedesse
qualcosa a te, ci sarebbero persone pronte a dare la vita pur di proteggerti.
- I know.
Questo pensiero non l’aveva fatta dormire. Persone disposte a morire pur di
salvarla. Che persona orribile sarebbe stata se avesse concesso una cosa
simile, ancora una volta? Già in passato era successo. Avevano rischiato,
qualcuno era morto. Tutto l’odio del mondo sembrava privo di senso, come le
bombe, come la guerra. Perdere ogni cosa e vivere nell’odio, senza mai trovare
un briciolo di pace. Il pensiero le corse direttamente a Ritter e Sterling,
e pregò ardentemente che potessero continuare a stare sicuri, lontani dalla
guerra, ancora una volta.
- Non gliene tornerebbe
nulla in tasca, a tradirci.
Forse aveva ragione lei. Forse si stava preoccupando per nulla. Da quanto
non dormiva decentemente? Da quanto non viveva senza paura o pensieri? Continuava
a chiederselo mentre usciva dalla doccia, fresca. La spalla però le faceva male,
si fasciò nell’asciugamano di spugna, si guardò allo specchio. Non sembrava
nemmeno più lei, magra, con gli aloni attorno agli occhi, lo sguardo spento,
distante. Poi le cicatrici. Le percorse con il dito. Ricordava il viso di Mordecai
mentre le guardava. Bastava quello per capire che erano ferite mortali. Un
brivido la colse al pensiero del cane che accompagnava il medico e da lì la
mente saltò diritta a mobilitare spettri più antichi. Cole e quella maledetta
giornata agli scontri tra cani. Cole e la guerra. Cole,
Dean,
Will
e la guerra. Trigger e la guerra. Trigger che voleva tornare a
combattere e lei, lei che non voleva davvero lasciarglielo fare. Si trovò a
sospirare, abbattuta, aggrappata al lavandino mentre l’immagine di un’altra lei
si faceva più piccola e distante. Poi il suono di una bussata. Una voce amica,
una delle poche nonostante capitasse di vedersi ormai rare volte nel corso di un anno. Sua
sorella, che le chiedeva se stava bene.
- Ho fame.
- Preparo il caffè.
Senza rendersene conto era arrivata l’alba. Un nuovo giorno da affrontare,
con tanti problemi, sempre più preoccupazioni e mille fantasmi per la testa. Quando
aprì la porta, nonostante l’aspetto trasandato di chi si è appena alzato dal
letto, vide il sorriso di Anya e riuscì a ricambiare.
- Meno male che ho te.